Siamo abituati ad associare il caporalato a lavori umili, soprattutto nel settore agricolo o edilizio, svolti da persone che hanno di norma un basso livello educativo e limitate prospettive professionali alternative. L’avvento dell’economia e del capitalismo digitale, invece, ci costringe a riconsiderare questo punto di vista stabilendo un nuovo paradigma per quanto riguarda il lavoro, i suoi ambiti, i nuovi diritti e i nuovi doveri derivati in buona parte dalla nascita di nuove professioni che sono quasi o del tutto prive di un contesto normativo di riferimento, come ad esempio capita ai cd. Rider, i moderni fattorini digitali che ogni giorno ci consegnano a domicilio pasti, spesa e prodotti di ogni genere, dipendenti di fatto ma (almeno per ora e in linea di massima) autonomi di nome.
Di recente, sia in Italia che in Europa, si stanno aprendo nuovi scenari a questo proposito. Lo scorso 24 febbraio, ad esempio, sono giunte due importanti notizie a riguardo. La prima, riguarda l’inchiesta fiscale avviata dalla Procura di Milano nata “per verificare se sia configurabile una stabile organizzazione occulta” dal punto di vista fiscale, che è già stata estesa ad tutta Italia.
Nel contesto di questa indagine, il procuratore di Milano Greco ha dichiarato che “non è più il tempo di dire sono schiavi ma è il tempo di dire che sono cittadini”. In conseguenza di ciò, “60mila lavoratori” di società del delivery, dovranno essere assunti dalle aziende come “lavoratori coordinati e continuativi”, ossia passare da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati.
In aggiunta, alle stesse società è stata comminata una sanzione di 733 milioni di euro per mancanza delle necessarie accortezze in materia di sicurezza. Il due aprile, poi, la Direzione dell’Ispettorato del Lavoro di Milano-Lodi ha respinto i ricorsi presentati nelle scorse settimane dalle piattaforme di delivery finite al centro dell’inchiesta “pilota” della Procura di Milano sulle condizioni di lavoro e di sicurezza dei Rider, ribadendo che i ciclo fattorini “per le loro mansioni, sono lavoratori eterodiretti e non collaboratori occasionali”.
La seconda notizia riguarda l’avvio da parte della Commissione dell’Unione Europea di una consultazione sulla tutela dei riders e degli altri lavoratori delle piattaforme digitali. Lo scopo della Commissione è trovare soluzioni rapide ed operative per trovare un corretto equilibrio tra flessibilità, tutele e la possibilità che lo sviluppo di questo settore – che non va però ostacolato – possa portare ad una nuova precarietà.
Entrambe queste iniziative potrebbero condurre ad un nuovo modello per quanto riguarda le nuove professioni ricoperte sempre di più in maniera tutt’altro che occasionale da lavoratori spesso anche altamente qualificati.
Ultima in ordine di tempo è poi la notizia che la piattaforma Just Eat ha raggiunto un accordo con i sindacati per inquadrare i rider con un contratto della logistica. Si tratta di un passaggio dal valore importantissimo soprattutto perché giunto a seguito di lunghe insistenze delle parti sociali, e che dovrebbe avere la conseguenza di assumere circa 4000 lavoratori in tutta Italia.
Quanto fatto da Just Eat è di particolare rilevanza in quanto ribadisce l’autonomia di questa piattaforma rispetto agli altri concorrenti del settore dal quale si era già discostata lo scorso novembre non aderendo alla firma del contratto di categoria.
La mancanza di una vera e propria “carta dei diritti e dei doveri” del lavoratore digitale, ciò che vale in buona parte anche per gli aderenti allo smart working nei settori pubblici e privati, impedisce, in effetti, un vero e proprio sviluppo coerente dell’interno settore.
Anche perché creare un’infrastruttura normativa attorno ad un settore, senza che questa sia soffocante ed eccessivamente minuziosa, non significa limitarne la crescita ma gli conferisce un contesto e un modello di sviluppo, sarebbe come a dire che è sbagliato incanalare un fiume per sfruttarne le potenzialità anziché lasciarlo sgorgare libero mentre le acque si disperdono lungo il percorso, magari producendo anche dei danni.
Il prossimo passo dovrebbe essere che tutte le imprese, i sindacati e le associazioni attive in ambito digitale collaborino per scrivere assieme le regole di un gioco che altrimenti rischia di sfuggire di mano.
L’economia digitale, infatti, non deve necessariamente essere un far west normativo, e questo vale sia per la tutela dei lavoratori sia per quella dei consumatori dei servizi digitali, di certo non favoriti da un legislatore che spesso non riesce a tenere i ritmi dell’innovazione.
In questo contesto, più che nell’individuazione di misure tampone, spesso raffazzonate, stirate ed adattate, andrebbe indirizzata l’azione di intervento tesa anche a favorire uno sviluppo sostenibile di un’economia dalle immense potenzialità.
Maurizio Pimpinella