Le accelerazioni pandemiche disorientano anche le big tech

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La pandemia, secondo molti analisti, avrebbe dovuto segnare il passaggio definitivo dalla vita analogica a quella digitale e si è spinto molto in tal senso, per ovvie ragioni, soprattutto durante i lockdown(s) che hanno sancito l’affermazione definiva dello smart working.

In teoria si sarebbe dovuto avere un incremento delle vendite di dispositivi elettronici ma così non è stato, in primo luogo per la crisi economica che il COVID ha generato ma soprattutto per il blocco della produzione ed esportazione di devices dovuto all’irreperibilità delle materie prime proprio perché il monopolio, sia di terre rare che di produzione ed assemblaggio di dispositivi, è appannaggio della Cina (e della contesa Taiwan) da cui tutto è iniziato.

Allo stesso tempo, la paralisi del pianeta ha forzato anche il tentativo di convertire i processi per produzione e consumo di energia da inquinanti a green ma con scarso successo, soprattutto nel settore automotive, per via di costi elevati e tempi prematuri.

Ciò che è scaturito da questa congiuntura, alla quale si è aggiunto il conflitto Russo-Ucraino, è storia recente che tutti conosciamo.

Veniamo però al concreto, ovvero la crisi che imperversa nel settore hi-tech da qualche mese e che ha colpito principalmente le cosiddette Big; Facebook, Twitter, Apple e Tesla su tutti ma la diminuzione dei profitti è un fenomeno generalizzato soprattutto per quelle società che hanno impianti produttivi in Cina o dipendono da essa per le materie prime.

Nonostante tutto i mercati, principalmente il Nasdaq, dopo un logico rally, hanno ripreso quota ma le previsioni a medio termine prevedono cautela.

Sebbene tutte le società che hanno accusato flessioni nei ricavi non siano tutte produttrici di hardware (come Facebook e Twitter) la dinamica trova una spiegazione in minori introiti pubblicitari e contratti business gran parte dei quali provenienti proprio da grandi aziende in crisi.

Sono infatti noti a tutti i tagli di personale da parte dei due più famosi social, circa il 30% per quanto riguarda Twitter ed i quasi 11.000 dipendenti mandati via da Facebook le cui difficoltà sono da addebitarsi anche (o soprattutto) alle errate previsioni di penetrazione nel mercato del Metaverso le cui performances sono finora al di sotto delle attese.

Diversi invece sono i fattori che hanno determinato cali nei profitti per le aziende produttrici di smartphones, notebooks, pads e dispositivi elettronici di ogni genere, dando per assodato le citate difficoltà produttive e di approvvigionamento causate dagli stop a singhiozzo cinesi.

Una delle cause è certamente l’eccessiva velocità del progresso, in parole povere il lancio di nuovi modelli a distanza ravvicinata senza tener conto né della crisi economica e tantomeno dei prezzi elevati decisi per la messa in commercio di smartphones, personal computers ed auto elettriche (per restare sempre nell’hi-tech).

Si pensi, ad esempio, che Apple nell’arco di soli due anni ha abbandonato i processori Intel per affidarsi ai propri rinnovando in brevissimo tempo la gamma dei computers; in un solo anno solare sono stati lanciati l’M1, M1 Pro, M1 Max ed M2 e sono in fase di perfezionamento M2 Pro, M2 Max ed M3 i cui lanci sarebbero previsti per il primo semestre 2023.

Idem dicesi per Samsung che in un lasso di tempo minimo ha rilasciato, nel settore della telefonia mobile, i modelli S20, S21 ed S22 con le relative varianti.

Conseguenza logica di questa gara sfrenata è stata che sono aumentate vertiginosamente le vendite di usato, sia di personal computers che smartphones, e non solo; sono infatti nate come funghi aziende specializzate nel reperimento e commercializzazione di usati di qualità e ricondizionati con relativa garanzia di 12 mesi.

Ciò semplicemente perché la logica insegna che nessuno spenderebbe in media 1.000 euro per uno smartphone, o 2.000 per un notebook, sapendo che dopo circa 3 mesi avrebbe tra le mani un prodotto superato.

Discorso differente per le auto full Electric la cui scarsa diffusione è dovuta a costi elevati, bassa autonomia e scarsità di infrastrutture di ricarica.

Ed è proprio in quest’ottica che Tesla ha deciso di muovere i primi passi con la decisione di abbassare il prezzo base della Model 3, dai circa 58.000 euro a quasi 44.000 e non è escluso che altre aziende hi-tech seguiranno la stessa linea.

La crisi pandemica, e sue ripercussioni, ha evidenziato un fenomeno già in atto da svariati anni ma sottostimato da un certo benessere diffuso delle classi medie che ora è venuto meno; intendo appunto l’eccessiva rapidità del progresso tecnologico.

Se si vuol rientrare da questo vortice è necessario darsi una regolata, tradotto in parole semplici non è altro che rallentare la commercializzazione ravvicinata di nuovi modelli o ridurre drasticamente i prezzi come nell’esempio di Tesla.

La corsa continua all’innovazione è senza dubbio un fattore positivo che alimenta la competizione di qualità ma si dovrebbe tener conto di più delle condizioni globali di benessere delle classi medie e non solo dei dati di marketing quali risultati delle ricerche di mercato.

Sono infatti coloro che rientrano nelle classi medie che creano le fortune delle grandi aziende e venendo meno il loro benessere si innescano delle reazioni a catena che coinvolgono bene o male tutti i settori produttivi.

È sufficiente analizzare la cronologia dei dati relativi alle percentuali di popolazione sotto la soglia di povertà per rendersene conto, paese per paese, ed adeguare le relative strategie commerciali.

Esistono delle priorità cui non ci si può sottrarre e che nella vita digitale 2.0 sono rappresentate dal debito che ognuno di noi ha, e naturalmente tra scegliere di pagare due rate di un mutuo o acquistare un device, o notebook, da 1.000/1.200 euro o 2.000/2.500, si preferisce essere in linea con i finanziamenti rinunciando al modello di ultima generazione per uno meno costoso o acquistarlo usato a prezzi ragionevoli per le proprie tasche.

La morale della favola è che un rallentamento “dell’offerta di progresso” gioverebbe a tutti e genererebbe meno disoccupazione, o, al massimo, la diluirebbe nel tempo creando ampi spazi per un ricambio generazionale.

Antonino Papa, 16 gennaio 2023

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