Economia

Le grandi crisi della storia. La crisi del debito sovrano

Daal sito di Consob

Economia

LA CRISI DEL DEBITO SOVRANO DEL 2010-2011

In seguito alla crisi subprime  numerosi istituti di credito europei hanno sperimentato gravi difficoltà e sono stati salvati da interventi pubblici. Questi ultimi hanno esacerbato gli squilibri di finanza pubblica dei Paesi più vulnerabili, concorrendo a provocare una contrazione del Pil a livello globale dell’uno per cento circa nel 2009. In particolare, mentre i principali paesi in via di sviluppo hanno sperimentato una significativa riduzione dei propri tassi di crescita, i paesi industrializzati hanno registrato una variazione del prodotto interno lordo negativa. Per l’Italia la contrazione del prodotto nel 2009 è risultata prossima al 5 per cento, configurando una delle più gravi recessioni dal dopoguerra.

 

L’antefatto. 

Nell’imminenza dello scoppio della crisi del debito sovrano, i paesi dell’eurozona presentavano differenze significative nelle condizioni di finanza pubblica e nel tasso di crescita. I cosiddetti Paesi core (come la Germania) si connotavano per livelli contenuti del debito pubblico e per un‘attività economica più solida, mentre i cosiddetti Paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), o “periferici”, si caratterizzavano per una maggiore vulnerabilità legata a dinamiche non sostenibili del debito pubblico, dovuta all’indebitamento accumulato negli anni, all’incremento incontrollato del deficit e a bassi tassi di crescita del PIL e, non ultimo, agli oneri delle operazioni di salvataggio degli istituti bancari in crisi.

Nonostante tali differenze, nel 2010 l’Area euro ha beneficiato della ripresa economica che ha interessato le principali economie avanzate, sebbene con ritmi e modalità eterogenei tra paesi e aree geografiche: i tassi di crescita del Pil hanno raggiunto i valori pre-crisi negli Stati Uniti e in Germania, ma si sono mantenuti a livelli significativamente inferiori nel Regno Unito e in molti paesi dell’Area euro (tra i quali l’Italia;

Il dissesto dei conti pubblici della Grecia, reso noto nell’ottobre 2009, ha segnato, tuttavia, il passaggio a una nuova fase della crisi, quella del debito sovrano, interrompendo la ripresa già incerta.

La crisi ha avuto epicentro nei paesi periferici dell’eurozona (Portogallo, Irlanda e Grecia) per poi estendersi nel corso del 2011 a Spagna e Italia.

 

La crisi e le misure di contrasto. 

Nel corso del 2010, a maggio in particolare, i paesi dell’Eurozona e il FMI hanno approvato un prestito di salvataggio per la Grecia di 110 miliardi di euro (30 da parte del FMI). Successivamente, nel mese di novembre, è emersa la crisi del sistema bancario irlandese: il Governatore della banca centrale irlandese ha rivelato che le perdite delle banche domestiche ammontavano a 85 miliardi di euro (pari al 55% del PIL) e le istituzioni europee con la partecipazione del FMI hanno approvato un piano di sostegno per un ammontare pari a 85 miliardi di euro. A maggio 2011, UE, BCE e FMI (la cosiddetta Troika) hanno concesso un prestito di 78 miliardi di euro anche al Governo portoghese.

Le tensioni di questi paesi si sono riflesse immediatamente su tutti i principali mercati finanziari, ove si sono registrati cali di ampie dimensioni, in alcuni casi comparabili a quelli verificatisi nel corso della crisi del 1929. Le maggiori agenzie di rating hanno inoltre abbassato il merito di credito di diversi paesi europei e, conseguentemente, di diverse banche con sede in tali paesi o con consistenti esposizioni in titoli pubblici di paesi in difficoltà, amplificando in molti casi le turbolenze sui mercati.

Il comparto dei titoli bancari, in ragione dei profondi legami con il settore pubblico, è risultato quello maggiormente esposto al contagio, tanto da far registrare, nel 2011, un ribasso superiore a quello degli altri comparti in tutte le economie avanzate.

Gli effetti della crisi hanno poi trovato nelle dinamiche connesse alle concessioni di credito bancario un veloce canale di trasmissione verso l’economia reale: a partire dall’inizio del 2009 si sono registrati, infatti, forti segnali di irrigidimento degli standard di concessione del credito da parte del sistema bancario sia in Europa sia negli Usa. I dati segnalavano evidenze sia del cosiddetto razionamento in senso forte, consistente in un vero e proprio rifiuto di accordare nuovi finanziamenti, sia del cosiddetto razionamento in senso debole, consistente nella concessione di finanziamenti a condizioni tanto onerose da indurre il debitore a rifiutare l’offerta di credito

I canali di trasmissione della crisi del debito sovrano alle banche domestiche sono molteplici. Le banche detengono tipicamente quote consistenti di titoli pubblici in portafoglio sia per motivi di investimento e come fonte primaria di garanzia nei mercati pronti contro termine. Tensioni sul mercato secondario dei titoli di Stato comportano, quindi, da un lato un deterioramento della qualità degli attivi bancari e, dall’altro, un aumento del costo della raccolta attraverso l’incremento dei margini sulle garanzie nelle operazioni di repo. Il merito di credito delle banche, inoltre, viene determinato anche dalla garanzia pubblica implicita che risente dello standing creditizio dello Stato di appartenenza.

Le manovre di contenimento della spesa (cosiddetta austerity) attuate, prima dai Governi degli Stati in difficoltà e poi da tutti gli Stati membri dell’Unione, hanno infine concorso a rallentare la crescita inducendo, in alcuni casi, una vera e propria recessione.

La crisi si è manifestata in tutta la sua gravità a partire dai primi giorni di luglio 2011, quando ha investito anche l’Italia (terza economia dell’Unione) e in minor misura la Spagna (quarta economia dell’Unione). Con riferimento all’Italia, il rendimento dei Btp decennali ha raggiunto livelli prossimi al 7 per cento, con il conseguente innalzamento del costo complessivo di rifinanziamento del debito pubblico. Il differenziale di rendimento rispetto al Bund tedesco (il cosiddetto spread) è passato in pochi mesi da valori inferiori ai 200 punti base a valori superiori ai 500 punti base (570 punti nel mese di novembre). Un ampliamento così consistente dello spread è stato il risultato dell’effetto combinato da un lato dell’incremento della percezione del rischio sovrano italiano e dall’altro della preferenza degli investitori verso i titoli tedeschi, considerati più sicuri (cosiddetto flight to quality).

Tutt’altro che trascurabile è risultata, inoltre, la componente legata all’effetto contagio, ossia la quota di spread che non deriva dalla situazione macroeconomica e di finanza pubblica del singolo paese, ma dalla “crisi di fiducia” degli operatori di mercato. Come mostra uno studio della Consob del 2012, a partire dalla crisi finanziaria del 2007-2008, alcuni paesi europei hanno sperimentato una crescente penalizzazione registrando differenziali di rendimento dei relativi titoli pubblici rispetto al Bund tedesco, sempre meno guidati dall’andamento dei fondamentali economici e fiscali e sempre più legati a fenomeni di contagio. Per l’Italia ciò ha comportato una penalizzazione costante e progressivamente crescente con l’aggravarsi della crisi, fino a raggiungere, nella prima metà del 2012, un sovraprezzo sui rendimenti dei suoi titoli stimabile in circa 180 punti base.

L’Unione europea è intervenuta, in momenti diversi, tramite il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) costituito dai membri dell’Area euro nel 2010 al fine di aiutare gli Stati membri in difficoltà, fornendo prestiti, ricapitalizzando banche e comprando titoli di debito sovrano. Tali iniziative hanno determinato un’attenuazione solo temporanea delle tensioni sul debito sovrano europeo, apparendo agli operatori di mercato come interventi poco risolutivi.

Le forti pressioni sui titoli bancari europei e le condizioni di crescente stress sul mercato interbancario hanno poi spinto la BCE ad adottare una serie di misure volte a sostenere la liquidità degli intermediari e a evitare che le turbolenze dei mercati compromettessero il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Agli strumenti di rifinanziamento esistenti si sono affiancati le aste a scadenza annuale con soddisfacimento illimitato e l’acquisto di titoli di Stato della area euro sul mercato secondario.

Negli anni gli interventi della BCE si sono fatti sempre più incisivi. Le due Long Term Refinancing Operations (LTROs) hanno avuto effetti positivi parziali e sono servite solo ad arginare la crisi. L’OMT di settembre 2012, con l’acquisto illimitato di titoli governativi, ha rappresentato un forte segnale da parte della BCE. Nel settembre 2014 la BCE ha assunto due misure straordinarie, il Targeted Long Term Refinancing Operation (TLTRO) e l’acquisto di titoli ABS e Covered Bond, misure attraverso le quali la BCE e gli organismi internazionali hanno dimostrato di avere ormai il polso della gravità della crisi.

Le condizioni di mercato eccezionali generate dalla crisi del debito sovrano hanno ostacolato, tuttavia, la trasmissione all’economia reale delle azioni di stimolo adottate dalla BCE. In particolare la frammentazione del mercato finanziario unico ha impedito alle misure di politica monetaria di generare un miglioramento delle condizioni di accesso al finanziamento per le banche dei paesi più esposti alla crisi. Inoltre, le tensioni che le banche hanno sperimentato sul fronte della redditività (in un contesto di bassi tassi di interesse), della provvista e del deterioramento degli attivi legato al peggioramento della qualità del credito, hanno ridotto la propensione degli istituti bancari a ridurre il costo dei prestiti a famiglie e imprese.

Nei primi mesi del 2015, i mercati azionari hanno beneficiato del miglioramento delle aspettative indotto dal programma di acquisto di titoli della BCE (EAPP, cosiddetto quantitative easing) approvato a gennaio e attivato all’inizio di marzo, che ha esteso il programma di acquisto sul mercato secondario di titoli emessi dal settore privato, in particolare ABS e covered bonds, anche ai titoli pubblici denominati in euro. Conseguentemente, il market sentiment degli investitori nell’Area euro (implicito nei rendimenti dei mercati azionari) è migliorato mostrando un netto rialzo e interrompendo la dinamica decrescente osservata a fine 2014, connessa alla debole crescita economica e alle pressioni deflazionistiche in atto.

La durata del programma EAPP è sostanzialmente indeterminata. L’intervento, infatti, è destinato a durare almeno fino a fine settembre 2016 ma potrebbe proseguire fino a quando l’inflazione non sarà tornata stabilmente su livelli prossimi all’obiettivo di medio periodo della BCE (ossia attorno al 2% annuo). Il programma prevede acquisti di titoli (pubblici e privati) fino a 60 miliardi di euro mensili per un ammontare complessivo di circa 1.140 miliardi di euro, di cui si stima 900 miliardi di titoli emessi da istituzioni pubbliche. La ripartizione degli acquisti per paese sarà fatta in proporzione del contributo delle banche centrali nazionali al capitale della BCE (mantenendo una certa flessibilità negli acquisti mensili) e riguarderà titoli con scadenze comprese fra 2 e 30 anni. Con riferimento all’Italia, in base alle prime operazioni effettuate dalla BCE sul mercato secondario, si può stimare che l’acquisto di titoli pubblici si attesterà attorno ai 150 miliardi di euro (equivalente all’11,6% delle titoli in circolazione e al 30% circa delle emissioni previste per il biennio 2015-2016).

Il quantitative easing, finalizzato a influenzare variabili finanziarie e reali attraverso il canale del tasso di interesse, ha una portata più ampia delle misure di politica monetaria che l’hanno preceduto, indirizzate principalmente al settore bancario e volte a ristabilire il corretto funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria all’economia attraverso il canale bancario (cosiddetto bank lending channel).

In seguito all’annuncio dell’EAAP, i rendimenti del debito sovrano sono scesi a livelli eccezionalmente bassi in tutta l’area euro e su tutte le scadenze. Conseguentemente la percezione del rischio sovrano per i paesi dell’Eurozona si è notevolmente attenuata, come si rileva anche dell’andamento dei prezzi dei CDS sul debito pubblico e dai rating impliciti nelle quotazioni di mercato. Il calo dei rendimenti di titoli pubblici ridurrà la spesa per il servizio del debito e renderà più agevole la realizzazione delle misure di contenimento del deficit da parte dei paesi con maggiori squilibri di finanza pubblica.

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