Economia

Le grandi crisi della storia: Le crisi degli anni ’90 e 2000

Dal sito di Consob

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LE CRISI DEGLI ANNI ’90 E INIZIO 2000

Le crisi finanziarie degli anni novanta si sono caratterizzate per la presenza di crescenti squilibri sia di finanza pubblica sia nei rapporti con l’estero. Questa circostanza viene anche indicata con l’espressione “deficit gemelli”: a un deficit pubblico (differenza tra entrate e uscite dello Stato) si accompagna un deficit della bilancia commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni). Tali condizioni possono minare la fiducia nella sostenibilità del debito complessivo del Paese, determinare pressioni sul tasso di cambio e, per tale via, sui tassi di interesse e sul livello dei prezzi. 

 

Crisi del Messico, 1994

Premessa. La liberalizzazione delle transazioni finanziarie dei primi anni ‘90 aveva indotto un ingente afflusso di capitali verso il Messico. Al fine di combattere l’elevata inflazione di quegli anni, il Messico aveva ancorato la propria valuta, il peso, al dollaro statunitense e aveva fissato i tassi di interesse a livelli elevati, per incentivare gli investitori a detenere pesos. L’ancoraggio al dollaro e la conseguente impossibilità di ricorrere allo strumento della svalutazione determinarono, tuttavia, una perdita di competitività del Paese sui mercati internazionali, un calo delle esportazioni e un progressivo aumento del deficit della bilancia commerciale. Nel 1994 il deficit di parte corrente superò l’8% del PIL. 

La crisi di fiducia. I mercati reputarono il deficit della bilancia commerciale eccessivo e incoerente rispetto a un tasso di cambio ancorato a una parità di poco più di 3 pesos per dollaro. I disordini politici del gennaio 1994 contribuirono ad alimentare una crisi di fiducia e indussero le autorità messicane a sostituire i titoli di debito pubblico denominati in valuta locale, via via che giungevano a scadenza, con titoli in dollari, al fine di ridurre i rendimenti richiesti dai creditori esteri per coprirsi dal rischio di svalutazione.

Questa misura non riuscì, tuttavia, a scongiurare l’aumento dei rendimenti dei titoli pubblici, poiché le riserve in dollari detenute dalla banca centrale messicana non erano sufficienti a garantire il rimborso dei nuovi titoli a breve scadenza e gli investitori richiedevano un premio per il rischio di ripudio del debito (ossia il timore che il governo non fosse in grado di rimborsare le obbligazioni denominate in dollari).

Dalla crisi di fiducia alla crisi del debito e alla svalutazione. Nel dicembre 1994 il livello delle riserve era ormai esiguo e sufficiente a coprire solo circa un quarto del debito pubblico denominato in dollari. Tale circostanza, unita alla difficoltà ormai conclamata di reperire capitali sui mercati internazionali, costrinse le autorità ad abbandonare la parità.

Tra settembre 1994 e aprile 1995, il peso si svalutò quasi del 100 per cento (da una parità centrale di poco più di 3 pesos per dollaro a una parità di 6 nuovi pesos per 1 dollaro americano).

Dalla crisi del debito alla crisi economica. Nel 1995 il PIL messicano si ridusse di quasi il 6%. L’intervento del Fondo Monetario Internazionale e del governo degli Stati Uniti, per un ammontare complessivo di 50 miliardi, ripristinò rapidamente la fiducia dei mercati e frenò la crisi. Nel 1996 i titoli in dollari furono rimborsati in anticipo rispetto alla loro scadenza e il PIL tornò a crescere a un tasso del 4%.

 

La crisi del Sud Est asiatico, 1997

Premessa. Fra il 1965 e il 1996 i paesi dell’Asia Orientale avevano registrato un tasso medio annuo di crescita del PIL pro-capite pari a circa il 6%, valore superiore al dato relativo a qualsiasi altra economia mondiale (cosiddetto “miracolo asiatico” o “miracolo delle tigri asiatiche”). Fino ai primi anni ‘90, la sostenibilità dello sviluppo economico era garantita da politiche monetarie e inflazione moderate, equilibrio dei conti pubblici ed esportazioni in crescita. Fattori di vulnerabilità, tuttavia, emergevano con riferimento al peso degli investimenti finanziari di breve periodo (in particolare, in Tailandia) soprattutto da parte di investitori esteri, all’incremento sostenuto del livello di indebitamento delle imprese, favorito dal clima di fiducia nelle prospettive di crescita, da tassi d’interesse persistentemente bassi e dalla facilità di accesso al credito bancario, e al sistema bancario privato, che operava in un regime di liberalizzazione e deregolamentazione. Un ulteriore limite strutturale era da ricondurre all’ancoraggio delle valute locali al dollaro, il cui apprezzamento verso la metà degli anni ’90 contribuirà alla contrazione dell’export e alla crisi valutaria.

La crisi valutaria. L’epicentro della crisi fu la Tailandia, che a seguito dell’aprezzamento reale del baht (per effetto dell’apprezzamento del dollaro a cui era ancorato) si trovò a dover fronteggiare un debito estero insostenibile. La situazione risultava aggravata dalla vulnerabilità del sistema bancario domestico, che si era indebitato in dollari a breve termine e aveva erogato credito in valuta locale a lungo termine. L’inizio della crisi valutaria si fa coincidere con la svalutazione del baht, nel luglio 1997, decisa dalla Banca centrale tailandese a seguito di una serie di attacchi speculativi da parte di fondi di investimento internazionali che nel giro di due settimane ne avevano provocato un deprezzamento rispetto al dollaro pari al 15% (30% a fine luglio). I deflussi di capitali esteri e la conversione delle attività nazionali in valuta estera concorsero ad aggravare la crisi.

Il contagio. Il crollo della moneta tailandese innescò fenomeni di contagio che coinvolsero rapidamente le economie limitrofe. Fra la metà di luglio e la fine di agosto il baht si era stabilizzato, ma gli attacchi speculativi avevano già colpito dapprima la valuta del paese più prossimo, la Malesia, poi dell’Indonesia, e infine della Corea del Sud. La svalutazione del baht tailandese, infatti, aveva alimentato il timore che altri paesi avrebbero tentato una svalutazione competitiva, al fine di stimolare le esportazioni, ridurre il costo del debito e proteggersi dal ribasso del costo delle importazioni. Le monete dell’area si svalutarono in una misura che andava dal 20% circa per il dollaro di Taiwan al 110% per cento circa per il won coreano.

Dalla crisi valutaria alla crisi economica. La crisi valutaria si riflesse rapidamente sull’economia reale con una recessione che perdurò fino al 1998. La fuga dei capitali, indotta dal timore di ulteriori svalutazioni, mise in gravi difficoltà banche e imprese. Alla fine del secondo semestre del 1997, le Borse dell’area registrarono perdite tra il 20% di Hong Kong e il 55% della Tailandia; le perdite furono anche superiori nel comparto immobiliare. Nel giro di pochi mesi fallirono numerose imprese, banche e istituzioni finanziarie, i cui debiti vennero ritenuti di incerta esigibilità dalle agenzie internazionali di valutazione.

Gli interventi del Fondo Monetario Internazionale. Al fine di ripristinare la fiducia del mercato, il Fondo Monetario Internazionale si attivò fin dal luglio 1996, concedendo prestiti condizionati all’attuazione di “riforme strutturali”. I piani di riforma prevedevano, tra le altre cose, tagli alla spesa pubblica, aumento della pressione fiscale, maggiore apertura e trasparenza del sistema finanziario, nonché una riforma della legislazione su banche e istituti di credito.

 

Crisi della Russia 1997-98

Premessa. La crisi valutaria russa del 1998 si sviluppò in un contesto di significative difficoltà (politiche, sociali, economiche e finanziarie) che il paese stava attraversando a fronte del crollo dell’URSS e della transizione da un’economia pianificata a un’economia di mercato. Il calo del prezzo del petrolio aveva penalizzato in modo significativo le esportazioni, determinando un repentino squilibrio della bilancia commerciale che si aggiungeva allo squilibrio dei conti pubblici. Questi fattori, unitamente al contagio della crisi asiatica, misero sotto pressione il rublo.

Crisi. Le turbolenze sui mercati finanziari cominciarono a manifestarsi sin dagli ultimi mesi del 1997, con cali dei corsi azionari e incrementi dei rendimenti dei titoli pubblici russi. Al fine di mitigare le pressioni speculative sul rublo, la Russia decise di ancorare il valore della valuta domestica al dollaro statunitense, secondo un meccanismo semi-rigido che prevedeva la possibilità che il tasso di cambio si muovesse entro bande di oscillazione predeterminate. In particolare, il valore centrale del tasso di cambio venne fissato a 6,2 rubli per dollaro con una banda di oscillazione del ±15%.

La Banca centrale tentò di difendere l’ancoraggio al dollaro sia con operazioni sul mercato valutario (vendendo valuta estera, accumulata grazie agli afflussi di capitale e alle esportazioni di beni energetici, in cambio di rubli) sia innalzando il tasso ufficiale di sconto. Le riserve in valuta estera, tuttavia, si assottigliavano sempre più senza risultare efficaci, a fronte di una perdurante discesa del prezzo del petrolio.

La forte instabilità politica che si manifestò nel Paese in risposta alla crisi economica aumentò il timore degli operatori circa la sostenibilità dell’ancoraggio del rublo al dollaro. Per tutta la prima metà del 1998 si susseguirono vendite di obbligazioni governative russe da parte degli investitori internazionali e interventi delle agenzie di rating, che declassarono più volte il merito di credito della Russia. Il governo mise a punto un piano anticrisi che prevedeva da un lato riforme strutturali e fiscali, dall’altro la richiesta di un prestito alle istituzioni internazionali per fronteggiare gli attacchi speculativi. Il FMI varò, nel luglio 1998, un piano di sostegno finanziario per un ammontare complessivo di quasi 23 miliardi di dollari.

Queste misure, tuttavia, non risultarono efficaci. La Borsa di Mosca continuò a registrare pesanti ribassi e le riserve valutarie della Banca centrale si esaurirono. A metà agosto 1998 vennero annunciati una serie di provvedimenti, tra i quali l’allargamento della banda di oscillazione del rublo, una ristrutturazione del debito pubblico denominato in rubli (che prevedeva una sospensione dei pagamenti connessi ai titoli di Stato a breve termine) e una moratoria di 90 giorni sul debito estero (ossia sul debito commerciale nei confronti dei non residenti).

Contagio a banche ed economia reale. La crisi valutaria innescò, quindi, una crisi del debito sovrano russo, che ebbe pesanti ripercussioni sul sistema bancario, significativamente esposto verso il debito pubblico domestico, e si accompagnò alla chiusura del mercato interbancario. Il default degli istituti di credito venne evitato grazie a numerosi interventi a sostegno del sistema bancario. Anche l’economia reale risultò compromessa, registrando nel 1998 un calo del Pil pari al 5%. Il 2 settembre del 1998 venne definitivamente abbandonato l’ancoraggio del rublo al dollaro. Il tasso di cambio passò in pochi giorni da 6 rubli per dollaro a 21 rubli per dollaro.

Negli anni successivi l’economia russa sperimentò una ripresa molto rapida, sostenuta anche dal rialzo del prezzo del petrolio e dal conseguente miglioramento dalla bilancia dei pagamenti. Già nel 1999, infatti, il tasso di crescita del PIL superava il 5%.

 

Brasile 1998-99

Premessa. Nel corso degli anni ’90, il Brasile sperimentò un peggioramento dei saldi di finanza pubblica e un crescente disavanzo del saldo commerciale con l’estero, a fronte di significativi afflussi di capitale. In quegli anni la valuta del Brasile, il real, era ancorata al dollaro. Il contagio della crisi asiatica a livello globale fece emergere gli squilibri macroeconomici che caratterizzavano l’economia brasiliana.

La crisi. Sul finire del 1998 forti vendite di obbligazioni brasiliane, pubbliche e private, innescarono pressioni sul tasso di cambio, sopravvalutato rispetto ai fondamentali economici del Paese. L’ancoraggio del real al dollaro si rivelò ben presto insostenibile. Nell’ottobre del 1998 il FMI varò un programma di aiuti finanziari, per un ammontare complessivo di oltre 41 miliardi di dollari, a fronte di un piano di aggiustamento fiscale teso a mitigare gli squilibri di finanza pubblica. Le risorse messe a disposizione del FMI consentirono di sostenere il real brasiliano solo temporaneamente: nel gennaio 1999, infatti, il Brasile abbandonò il regime di cambi fissi con il dollaro e nei due mesi seguenti il real subì un deprezzamento del 40% circa.

Nel marzo del 1999 il Brasile varò una nuova e drastica manovra fiscale correttiva, per contenere la dinamica potenzialmente esplosiva del debito pubblico, alimentata dagli elevati livelli dei tassi di interesse (innalzati al fine di mitigare il deprezzamento della valuta) e dell’inflazione (accresciuta dal deprezzamento del real). La recessione economica e l’abbandono dei meccanismi di indicizzazione dei salari adottati negli anni ’90 concorsero a contenere le pressioni inflazionistiche, con riflessi positivi per le finanze pubbliche e il clima di fiducia. L’abbandono dell’ancoraggio del real al dollaro prima che le riserve ufficiali della Banca centrale fossero esaurite contribuì, inoltre, a mitigare l’impatto della crisi valutaria sull’economia reale, così come la solidità del sistema bancario, che non risultava particolarmente esposto a rischi di cambio e di interesse.

 

Argentina, 2001

Premessa. Le cause della crisi sono da far risalire all’ingente debito accumulato nel corso di lunghe dittature militari e al rigido ancoraggio del peso, la valuta locale, al dollaro.

Negli anni 80, quando si insediarono forme di governo democratiche, l’Argentina continuò ad accumulare debito pubblico. Il tasso di cambio fisso favorì le importazioni, alimentando una deindustrializzazione del paese ed elevati tassi di disoccupazione. Il Fondo Monetario Internazionale continuava comunque a concedere all’Argentina prestiti e dilazioni di pagamento finalizzati al risanamento della finanza pubblica.

Altri paesi come Messico e Brasile (entrambi importanti partner commerciali dell’Argentina) affrontarono a loro volta crisi economiche che provocando una generale perdita di fiducia nei confronti dell’America del Sud e una progressiva riduzione dei flussi di capitali dall’estero. Dopo il 1999, la bilancia commerciale argentina peggiorò ulteriormente in ragione della svalutazione della divisa brasiliana e della rivalutazione del dollaro (e quindi del peso) nei confronti delle monete dei maggiori partner commerciali.

La crisi. Nel 1999 il PIL argentino diminuì del 4% e il paese entrò in recessione. La decisione del governo di non abbandonare il regime di cambi fissi contribuì a peggiorare la situazione. Il timore di una svalutazione innescò, nel 2001, una corsa agli sportelli bancari da parte dei correntisti che ritiravano pesos da convertire in valuta pregiata. Le misure restrittive imposte dal governo per arginare i prelievi provocarono in poco tempo una vera e propria rivolta popolare.

Nel dicembre del 2001, il Governo annunciò la sospensione della scadenza delle obbligazioni governative (moratoria). La decisione ebbe riflessi anche sugli investitori italiani, che avevano sottoscritto titoli pubblici argentini, e diede avvio ad una complessa fase di negoziati internazionali finalizzati alla ristrutturazione del debito

La diffusione in Italia di bond argentini. Complessivamente, i titoli obbligazionari argentini risultavano presenti nei portafogli di circa 430.000 investitori italiani, per un controvalore nominale pari a 12,8 miliardi di euro. Secondo stime elaborate dall’Associazione Bancaria Italiana, il 95% circa dei titoli argentini circolanti in Italia era detenuto da investitori privati e l’85% di tali titoli era costituito da obbligazioni governative. La percezione di affidabilità di un emittente sovrano e gli elevati rendimenti offerti dai titoli argentini possono spiegarne l’ampia diffusione presso la clientela retail italiana. Gli elevati rendimenti, tuttavia, riflettevano la rischiosità dell’investimento, a fronte di una situazione economica il cui progressivo deterioramento avrebbe poi condotto alla crisi.

Dopo diversi tentativi di preservare il regime di convertibilità della valuta, nel gennaio del 2002 il governo abbandonò la parità con il dollaro. In pochi giorni il peso perse gran parte del proprio valore.

Il deprezzamento progressivo della valuta nazionale provocò un rialzo del tasso d’inflazione. Molte imprese chiusero o fallirono; molti prodotti importati divennero inaccessibili ai consumatori locali e la qualità media della vita si ridusse drasticamente; il tasso di disoccupazione raggiunse il 25%.

La ripresa. A partire dal 2003, le misure a sostegno della produzione domestica assieme alla debolezza del peso e alla ripresa delle esportazioni consentirono all’economia argentina di tornare a crescere.