Tramandata dai nostri avi, di padre in figlio, la nostra è una tradizione di processioni secolari che conserva un lascito prezioso dal valore antropologico inestimabile: sono le nostre radici.
Migliaia di visitatori, stranieri e non, provenienti da tutto il mondo ci raggiungono ogni anno per vederle sfilare nelle strade principali del Corso Italia, un decumano che attraversa in linea retta, unendoli senza soluzione di continuità, tutti i comuni della penisola sorrentina.
Percorrendoli, uno per volta, si ha la stessa sensazione di quando si attraversano gli ambienti delle case più antiche presenti sul nostro territorio, quelle del milleottocento, con le stanze che si affacciano l’una dentro l’altra.
La dedizione di chi indossa il saio e va a ingrossare le fila delle processioni è ricompensata da chi, fin da settimane prima dell’inizio delle celebrazioni, recupera guide e brochure, declinate in tutte le lingue, per memorizzarne il cammino e studiarne il percorso.
Ogni comune organizza la propria processione e non è raro che si assista, di traversa in traversa, alla miscela di colori, vessilli e medaglioni poggiati sui mantelli delle tonache ammorbidite in vita da cinte di corda. Splendidi e splendenti, in piena notte.
Qualche volta capita di riuscire a riconoscere il volto di amici e conoscenti dalla sola espressione degli occhi, l’unico tratto del viso che confina con l’aria, sotto lunghi cappucci a punta.
Gli stendardi delle processioni sono quelli tipici delle varie confraternite, e la solennità con cui incedono nel passo ben si sposa con l’intimità della luce di migliaia di fiaccole sparpagliate in ogni dove: ai piedi dei balconi, sul davanzale delle finestre e perfino sul ciglio della strada ne accompagnano la camminata in una città tinta di euforica impazienza e di religioso silenzio.
La corsa per prendere posto ai lati delle strade in attesa dell’arrivo è ciò che ci unisce, tutti, per una notte, in un ottimismo collettivo e, al tempo stesso, intimista: basta il suono del tamburo in lontananza ad anticiparne il passo e il vociare lontano del Miserere ad annunciarne l’incedere perché lo sciame di visitatori e indigeni svolazzi in direzione del prossimo crocevia da cui poter ammirare l’arrivo della propria beniamina, dépliant alla mano..
E’ un fuggi, fuggi da qua e di là, a piedi e in moto, un rincorrersi a vicenda che dura fino all’alba.
A riviverlo, è uno schiamazzo emotivo che orchestra un sentimento di gioiosa appartenenza alla comunità tutta. E’ un momento di gratitudine. E’ un’occasione di raccoglimento spirituale.
Se si sceglie un punto di osservazione più alto, magari il sagrato di una delle tante chiese, spalancate e accoglienti più del solito, si nota come le processioni dirigano la propria marcia con una disciplina tale da mantenere un allineamento militare, riga per riga, e che lascia stupiti.
Ma il fenomeno più spettacolare è senz’altro quello prospettico: vederle insinuarsi, con quello stesso rigore, finanche nelle strettoie del centro storico e nei tanti vicoletti della penisola.
La meraviglia è inevitabile quando, appunto, per intrufolarcisi dentro riescono a dimezzare le proprie file, dimagrendo a vista d’occhio in larghezza, con l’agilità di chi è abituato a destreggiarsi nelle viuzze più anguste e la tipica maestria della guida esperta.
Proprio come fa la sabbia quando scivola da un lato all’altro dell’ampolla della clessidra, così centinaia d’incappucciati entrano ed escono da quei viottoli, pavimentati di sanpietrini e con le pareti affollate, in verticale, da vite affacciate alle finestre in attesa di quel passaggio carico di cori e benedizioni.
E, senza mai perdere l’armonia della simmetria, ci s’infilano dentro come fanno le lucertole quando s’imbucano negli interstizi dei muretti a secco di tufo che ne scolpiscono il passaggio.
Eppure sono centinaia.
Nella notte del venerdì santo, quella dedicata alla celebrazione più suggestiva, l’intera comunità si anima intorno a tante migliaia di piccole fiaccole accese e una sola Fede.
Quella che, con immensa fatica, tentiamo di riafferrare, oggi.
E’ un rituale che si ripete ogni anno, in occasione delle festività pasquali.
Ma quest’anno, no.
Quest’anno, ancora una volta, non è possibile. I numeri della pandemia non lo consentono ancora.
La sospensione di questa tradizione non equivale solo alla sottrazione di un momento di condivisione sociale, liturgica e spirituale. E non comporta soltanto la sospensione di una tradizione secolare con tutte le sue ripercussioni, soprattutto in termini di appartenenza comunitaria.
Si tratta anche di altro.
Aggiunge l’ennesimo, mancato, indotto di tutta una serie di sostegni economici soprattutto per chi, in una terra che vive principalmente di turismo, investe tutte le proprie risorse nella gestione di attività ricettive. Ferme da oltre un anno.
Significa camere di alberghi che non ospitano clienti, ristoranti che non aprono le cucine, bar che non fanno servizio ai tavoli. Treni, aerei e aliscafi che dormono in stazioni, hangar e banchine.
Un’interruzione che va oltre la rinuncia, eppur fondamentale, a un momento di condivisione spirituale, di rafforzamento psicologico, di cui territori con una forte tradizione popolare, come il nostro, fanno fatica a disfarsi.
E’ anche una preziosa fonte di ricchezza, economica e finanziaria, che non va più in circolo.
E se non fosse abbastanza, è sempre più evidente come l’emergenza sia diventata, ora, anche psicologica.
Non più solo sanitaria e finanziaria.
Francesca Lauro