Ieri ho fatto l’ennesimo tampone (ormai ho perso il conto) da quando questa Pandemia è cominciata. L’ho fatto per poter lavorare, per poter entrare in uno studio televisivo, dove, nonostante fossimo tutti “NEGATIVI AL COVID”, ma “POSITIVI ALLA VITA”, abbiamo indossato comunque le mascherine e abbiamo osservato ugualmente un corretto distanziamento sociale. Proprio mentre ero in attesa di ricevere gli esiti del tampone, uno dei presenti mi ha raccontato la “STORIA SPEZZATA” di un suo amico. Malato oncologico, è stato aggredito dal Covid_19 e purtroppo non è riuscito a sopravvivere alla malattia. Lo strazio che ho letto negli occhi e nelle parole di chi raccontava, non era relativo alla scomparsa, il suo dolore era alimentato da tutt’altro. “E’ morto senza poter vedere i suoi figli, senza poter vedere la moglie, i genitori. E’ morto senza poter vedere nessuno. E’ morto da solo e questo non è giusto, non è normale”.
Le parole di quel ragazzo mi hanno colpito, ferito dentro. Di storie così in questi mesi di Pandemia ne abbiamo sentite tante, le abbiamo fatte diventare NORMALI, quando normali non possono essere. Normale è che i nostri figli si alzino la mattina per andare a scuola, normale è che i nostri figli escano di casa e si divertano con i loro coetanei, così come abbiamo fatto noi alla loro età, normale è che noi si torni il più velocemente possibile a poter lavorare, produrre, salutarci, abbracciarci, VIVERE. Non è normale “AVER PAURA” di un amico, di un familiare, di un figlio, di una persona che amiamo. Non è normale aver paura del Natale. Sono ferite che continueranno a sanguinare dentro ciascuno di noi. A lungo, forse per sempre.
Tutto questo mi ha fatto ripensare alle prime settimane di Pandemia, siamo a quasi un anno ormai dai suoi esordi, ed alla cronaca che accompagnava quei giorni. Tutti eravamo lì a sperare nella medicina, nella ricerca scientifica che potesse combattere e sconfiggere il virus, tutti eravamo in ansia per ricevere la notizia del secolo :“Eccolo il vaccino. Covid_19 non sarà più un problema”.
Non sono un medico, non uno specialista in virologia, non sono esperto in vaccini, per cui non entro nel merito del dibattito pro e contro, che ognuno decida liberamente. Io sono un semplice cronista, uno che guarda alle cose della vita e le racconta cercando di essere il più possibile onesto intellettualmente.
I miei ricordi mi riportano al 1973. Ero ragazzino allora. Avevo nove anni quando sentii parlare di colera. Di quel periodo non ricordo moltissimo. Vivendo a Castel di Sangro, in Abruzzo, non c’era un pericolo reale per la popolazione locale, anche se, evidentemente, la vicinanza con Napoli, ma soprattutto l’interscambio turistico-commerciale, che ha sempre legato a filo doppio Napoli ed i territori montani dell’Alto Sangro, evidentemente non facevano dormire sonni tranquilli neanche alle popolazioni ed alle amministrazioni abruzzesi. Nei miei ricordi di quei giorni, ce n’è uno che difficilmente dimenticherò: il giorno della vaccinazione.
Ricordo una lunga coda. Partiva da piazza del Plebiscito (oggi splendidamente risistemata), si snodava verso il porticato del palazzo del municipio, passava davanti al Bar Milano e s’infilava nel portone che si apre sulla scala che consente, ancora oggi, di raggiungere gli uffici principali del Comune. Non ricordo quante ore rimanemmo in fila. Ma quello che ricordo e che eravamo tutti disciplinatamente in attesa del nostro turno. Ero con un paio di amici. Non con mamma e papà. A nove anni ero in fila per la vaccinazione contro il colera senza mamma e papà. Ma con un paio di amici. Nessuna di quelle migliaia di persone aveva un appuntamento. Ognuno di noi, semplicemente, sapeva di doverlo fare.
Con i miei amici di allora ricordo solo che, vedendo la fila, pensammo che fosse giusto fare anche noi quello che facevano gli altri. Una catena di montaggio. Dopo qualche ora arrivammo a destinazione. Ci iniettarono il vaccino nel braccio e tornammo ai nostri giochi di sempre. Tornato a casa, ricordo che dissi a mia madre di aver fatto il vaccino. Così semplicemente. Mia madre? Semplicemente ne prese atto.
Il giorno dopo mi svegliai con il braccio che sembrava un pallone da rugby. Faceva male. “E’ la reazione al vaccino – sentenziò mio padre – qualche giorno e passerà. Non preoccuparti”. Oggi come avremmo reagito a quel braccio gonfio? Quanti commenti e foto sui social avremmo visto?
E invece è andata proprio così, come ha detto mio padre. Qualche giorno ed è passato. Ma quello che ricordo davvero è la sensazione di sicurezza che ho vissuto dopo essermi vaccinato. La sensazione che il colera non fosse più un problema. Oggi quanti problemi abbiamo?
Covid_19? Le sue mutazioni potenziali? Gli ospedali inadeguati? L’insufficienza delle strutture sanitarie? Persino se fare o non fare il vaccino è diventato un problema. Viviamo un senso di precarietà e di paura che è diventato più lacerante della malattia stessa. Manca consapevolezza, quel senso di sicurezza che provai nel 1973 dopo essermi messo in fila ed aver fatto il vaccino che, di fatto, nella mia mente di bambino, aveva cancellato un problema.
Ma cos’aveva il bambino di allora in più o in meno rispetto a quello che sono oggi?
Avevo l’indipendenza di giudizio. Qualcuno forse dirà che ero inconsapevole. Io credo, invece, che avevamo tutti più fiducia nella volontà che si facesse il bene comune. Che non ci fosse qualche scopo recondito per cui era lecito diffidare di tutto e del contrario di tutto.
Era più facile comprendere cosa fosse giusto o sbagliato. Nessuno di quelle persone in coda si è mai chiesta se fosse giusto o sbagliato vaccinarsi. Nessuno si preoccupava dei profitti delle case farmaceutiche, nessuno si preoccupava d’altro che non fosse risolvere il problema. Oggi il livello di innocenza che avevo quando ero bambino, è condizionato da mille dubbi e perché. Oggi tutti hanno la risposta. Nessuno ha le competenze, ma tutti hanno la risposta.
Così diventa normale che i medici facciano i politici ed i politici facciano i medici. In tv e nella vita. Così è normale che non ci sia la capacità di creare competenze nella popolazione, educazione nei comportamenti, ma l’unica cosa che si è capaci di fare è: disinformare, creare confusione, disorientare. Tutti parlano di tutto, troppi parlano a vanvera di tutto. Ieri una persona della mia famiglia mi ha detto :”Io il vaccino non lo faccio”. Le ho chiesto il perché. Non mi ha saputo rispondere, ma era convinta che la sua scelta fosse giusta. Mi chiedo come si fa a scegliere se fare o non fare una cosa se non si conosce il perché di quella scelta?
Ci mancano le informazioni. Ci mancano leader in grado di guidare e non disorientare. Mancano messaggi seri, semplici, chiari, competenti. C’è un continuo tarlo del dubbio che s’insinua in tutto ciò che ci riguarda.
Sarà corretto e vero il numero dei morti? Di che cosa sono morti? Il numero degli infetti? Quello dei tamponi? Sarà vero che c’è una Pandemia in corso? Il vaccino conviene o non conviene? Chi ha interessi a sottopormi al vaccino? Come cambierà la mia vita, il mio DNA a causa del vaccino? Chi ci guadagna dall’uso delle mascherine? E dall’acquisto dei banchi con le rotelle? Chi guadagna dall’aver venduto monopattini, bici elettriche e, con la prossima finanziaria, chi guadagnerà grazie al bonus per la rubinetteria del nostro bagno? Qual è il vero motivo per cui ci tengono chiusi dentro?
Quanti di noi si stanno facendo queste domande?
Ma già il fatto che ci si ponga certe domande rende evidente come poche cose funzionino davvero per il verso giusto. Ma in che MONDO VIVIAMO se dobbiamo farci domande anche sulla serietà e l’affidabilità di chi fa scelte e prende decisioni che dovrebbero tutelare la nostra salute.
Vorrei vivere in un Mondo in cui la cultura del sospetto non la faccia da padrona rispetto alla cultura del BENE COMUNE, della SALUTE COMUNE.
E’ chiedere troppo? Chiedere troppo anche a noi operatori dell’informazione?
Sottolineo soltanto come, si possa essere, Paese per Paese, più o meno preparati e noi continuiamo a dimostrare di non esserlo, come se la frazione di popolazione che quotidianamente ci “lascia le penne” sia un semplice numero privo di ogni valenza reale.
Ieri sono decedute, per Covid, 649 persone. Detto così sembra una notizia asettica che, a furia di essere recepita, quasi non ci tocca più. Sembra quasi non esistano delle “storie personali” dietro quei numeri quotidiani, quasi non ci siano nomi e cognomi, storie familiari, storie di sofferenza, storie di abbandono. Sì storie di abbandono. SEICENTO QUARANTA NOVE storie SPEZZATE che forse avrebbero potuto avere altri finali, altro tempo, altra quantità di affetti. In una parola sono storie che avrebbero potuto avere ALTRA VITA.
Ed allora, di fronte a questi numeri, ogni giustificazione addotta per aver fatto o non fatto, scelto o non scelto, diventa un CAPO D’IMPUTAZIONE. Chi può fare e non fa non può essere considerato innocente, chi può fare e non fa, non ha diritto di difesa, chi può fare e non fa merita di non avere alcun tipo di considerazione.
Ci sono Paesi e Paesi. E noi sembriamo il Paese dei Balocchi. Ma davvero vogliamo vivere in un Paese di marionette dalle vite spezzate?
Guardiamo alla storia: Vaiolo, Polio, Pertosse, Epatite B, tanto per citarne qualcuno, la storia narra dei numeri del prima e del dopo, e ci racconta anche della forza delle scoperte legate alla penicillina e di tutti gli antibiotici che hanno salvato miliardi di vite. Ma guardiamo alla storia dei nostri comportamenti. Non facciamo le marionette, documentiamoci, ma facciamolo dalle fonti giuste e competenti e ce ne sono tante di cui ciascuno di noi si fida. In ogni campo. Basta tuttologia e cultura del dubbio. Ne va della salvezza anche mentale ed economica di un Paese straordinario come il nostro. Del resto lo vediamo anche da quello che accade attorno a noi.
Lo sottolinea una ricerca recente di Goldman Sachs. Israele, che ha fatto scelte forti anche nella gestione della Pandemia stessa, ora sta accelerando con lo sforzo di vaccinazione. Dalla grafica si nota come, la quantità di popolazione già vaccinata non abbia eguali rispetto ad altri Paesi come Uk, USA e Canada che pur stanno accelerando nella direzione delle vaccinazioni di massa. La linea italiana nel grafico non c’è.
Questo cambierà lo stato delle cose anche dal punto di vista economico. E’ giusto quello che fa Israele? E’ giusto quello che fa il nostro Paese? Dobbiamo aspettare i posteri per avere una risposta?