L’economia circolare del calcio nel dopo Covid

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La ri-attivazione del sistema calcistico italiano è un processo che, come hanno ampiamente dimostrato le vicende delle ultime settimane, si presenta con un grado di complessità molto elevato ed una strettissima connessione con il tessuto sociale, economico e produttivo del Paese. Tale percorso sarà contrassegnato da vari passaggi, il più importante dei quali – dopo quelli delle autorizzazioni delle autorità governative e la ripresa dei campionati (non tutti) – sarà scandita dalla grande opera di riforma strutturale e gestionale di tale sistema. Una riforma di tipo “culturale”, intesa in quel senso evolutivo che può trasformare un momento di crisi in una opportunità.

Per poterne comprendere le dinamiche ed i possibili sviluppi, è necessario considerare l’azienda Calcio Italia come una sorta di grande piattaforma avente, al tempo stesso, una connotazione sportiva, sociale, economica e mediatica. Un contesto in cui la finalità sportiva dell’attività si intreccia e spesso si confonde con il rappresentare un privilegiato mezzo – nell’accezione di medium – per veicolare socialità ed economia. Un sistema “ingombrante” sia nelle dimensioni che nell’impatto sull’opinione pubblica, quindi oggetto di attenzioni (non sempre disinteressate e non sempre centrate) da parte di appassionati fautori o di onnipresenti detrattori.

IL CALCIO COME PIATTAFORMA SOCIALE ED ECONOMICA

Il calcio italiano non è solo CR7 e gli altri colleghi più o meno in vista della Serie A ma rappresenta una grande rete di legami e rapporti economici che danno vita ad una sorta di grande sistema economico nel segno del pallone. Una grande azienda diffusa e ramificata sul tutto il territorio, dalle grandi città ai piccoli centri di provincia. Un brand unico, riconoscibile, identitario, forte sul piano della riconoscibilità e dell’attrazione. Un’anima bidimensionale, presa tra quella business oriented del vertice professionistico e la vocazione sociale della base, con diverse centinaia di posizioni lavorative indotto compreso.   ìOrganizzazione complessa per antonomasia, l’azienda Calcio Italia sfugge alla classificazioni tipiche della letteratura economica ed alle normali dinamiche del mercato e dell’economia. Essa rappresenta uno dei più importanti comparti industriali nazionali – terzo o quarto – con un motore economico molto più accelerato del sistema-Italia ( cinque o sei volte il Pil nazionale negli ultimi anni) ma incapace di tenere a bada il proprio debito strutturale in un’equazione gestionale fuori dalla linea di sostenibilità.

Il calcio italiano dal punto di vista economico-finanziario deve essere immaginato come una serie di piani di concentrici. Il cuore del sistema è dato dalla grande famiglia della Federazione Italiana Giuoco Calcio – al cui interno operano le Leghe – ente preposto alla gestione di un contesto sportivo di quasi 1,4 milioni di tesserati (1,05 milioni di calciatori, 238 mila dirigenti 29 mila tecnici e 32 mila arbitri), in gran parte con status di dilettanti (365 mila) ed inseriti nel calcio giovanile (680 mila), con una recente rapida ascesa del settore femminile (quasi 30 mila). La sfera professionistica, con il suo 1% di peso numerico, produce il 75% del fatturato complessivo pari a 3,5 miliardi di cui 3 grazie alla sola Serie A, il campionato di vertice. Il calcio italiano ha un peso di quasi il 25% sull’intero mondo sportivo affiliato al CONI, il comitato olimpico nazionale, forte di un seguito elevatissimo e di una imprendibile popolarità  tra la popolazione tra i 5 ed i 20 anni.

Leadership incontrastata anche nel mondo dell’entertainment, con 567 mila gare organizzate ogni anno grazie a 12,5 mila società e 66,5 mila squadre con una platea da stadio di oltre 17 milioni per le gare tra club e di 650 mila per le squadra nazionali. Non è un caso che 4 dei 10 programmi compresi tra i primi 20 per audience e 9 delle prime 20 trasmissioni sportive (tutte, tra l’altro, riferibili a gare di calcio) siano gare di calcio con club italiani o la Nazionale. Quest’ultima, nell’ultimo decennio, ha oscillato tra i 7 ed i 10 milioni di spettatori medi per gara, con uno share compreso tra il 26 ed il 44 per cento. Sul piano social, la federazione italiana è decima nel mondo per follower, quinta in Europa.

Tale posizione di vertice emerge anche attraverso il compito del gettito fiscale e previdenziale – pari a 1,2 miliardi (di cui 0,9 del professionismo) compreso il prelievo dalle scommesse (0,13 miliardi) – che rappresenta una porzione del 70% del comparto sportivo e del 36% dell’intero macro settore che comprende le attività sportive, artistiche e di intrattenimento/divertimento. Nell’ultimo decennio, il calcio italiano ha versato nelle casse dell’erario quasi 12 miliardi, con un rientro in termini di contributi Coni di appena 0,75, marcando un rapporto favorevole allo Stato di 1 a 15.

Il posizionamento assolutamente privilegiato della piattaforma socio-economica rende il calcio italiano un’industria con elevata redditività. Il valore della produzione del solo sistema professionistico in via diretta ha superato i 3,5 miliardi, a cui va aggiunta la grande economia della estesa base dilettantistica (1 miliardo) ed i ricavi di Figc e Leghe (oltre 200 milioni).

Questo impatto molto vicino ai 5 miliardi, inoltre, funge da moltiplicatore per l’indotto di una filiera ramificata in quasi tutti i settori: dal tessile all’impiantistica, dalle attrezzature al food&accomodation, dai servizi finanziari ed assicurativi fino al settore media (stampa quotidiana e digitale nonché network televisivi). Una recente stima Uefa attraverso il Sroi (social return on investment model) ha calcolato un indotto socio economico (economia pura, socialità e salute) di oltre 70 milioni.

LE DEBOLEZZE

Ricordate quando Jonathan Swift descriveva il Gulliver immobilizzato dagli abitanti di Lilliput? Ecco, metaforicamente, forse l’immagine riesce a descrivere al meglio lo stato del calcio italiano, i cui investimenti e la cui capacità di sviluppare il proprio business è notevolmente inibita da una situazione di perenne sofferenza. Tre sono gli elementi di debolezza del sistema: i debiti strutturali dei club, il modello gestionale economico-finanziario e la dispersione dei capitali fuori dal sistema.

Debiti. Costantemente compreso tra i 3,5 ed i 4 miliardi nell’ultimo triennio, ma purtroppo in costante crescita, il monte debitorio dei club mantiene il sistema in perdita ed è un fortissimo deterrente per operare i necessari investimenti, non solo sul piano sportivo (settore giovanile) ma anche su quello infrastrutturale (molti stadi sono vecchi e pochi funzionali, pochissimi di proprietà dei club). Forte è l’incidenza dei debiti di natura finanziaria (20-30%), in calo quelli tributari solo per gli obblighi inseriti nei regolamenti Figc.  Superando costantemente la capacità reddituale dei club e costringendo i soci ad ormai puntuali e sempre pesanti ricapitalizzazioni (2,8 milioni in media in B e 1 milione in Lega Pro per club), i debiti mantengono il modello gestionale nell’impossibilità di trovare equilibrio e, quindi, la necessaria sostenibilità.

Modello gestionale. Il quadro dei ricavi ci consegna una struttura alquanto debole, essendo i diritti televisivi la maggior fonte di ricavo per  club di élite, con un’incidenza media del tra il 40 ed il 50% che si alza anche di una ventina di punti in Serie B e Lega Pro. Dopo questi, ben oltre gli introiti commerciali (appena sopra il 15%), ci sono i ricavi da “plusvalenze”, vale a dire il differenziale in termini economici ai fini del bilancio tra il costo di acquisto e quello di cessione dei vari calciatori, parametro quest’ultimo allo stato del tutto ingovernabile e tantomeno prevedibile perché gestito dalle libere contrattazioni sul mercato (con tutte le possibili distorsioni del caso). Del tutto limitati gli ingressi collegati con lo stadio (non oltre il 10%), ma con il patrimonio infrastrutturale che abbiamo in Italia sembra paradossale anche solo preoccuparsene. In una logica internazionale tale capacità reddituale dei club top league italiani (110 milioni) è, in media, superiore del 20% ai soli francesi, mostrandosi in difficoltà nel raffronto con i club spagnoli (145 milioni), tedeschi(155 milioni) e, soprattutto, inglesi (267 milioni, il 150% in più). Ancor più penalizzante è il quadro dei costi. Con una debordante prevalenza del costo del lavoro – che oscilla dal 55% della Serie A al 69% della B fino all’83% della Lega Pro – i costi assorbono gran parte del valore della produzione (in Lega Pro sono addirittura superiori del 50%!). Lo status del professionismo riconosciuto attualmente a 100 club non sembra più sostenibile, conti alla mano.

Dispersione delle risorse. Il sistema Calcio-Italia, infine, sembra non riuscire ad attivare la giusta  “circolarità” delle risorse al proprio interno. Alla buona capacità attrattiva in entrate, infatti, non corrisponde una altrettanto parsimoniosa capacità di risparmiare sulla fuoriuscita di ingenti somme verso destinazioni esterne, quali il mondo finanziario (1,2 miliardi per la sola Serie A), la variegata area del mondo dei servizi connessi con il calciomercato ( quasi 215 milioni solo per le “consulenze” degli agenti ai club lo scorso anno) e l’elevata ormai proverbiale propensione dei club italiani ad “importare” calciatori dall’estero (siamo tra i migliori al mondo). Si tratta di risorse che, inevitabilmente, oltre a spingere verso in perdita i bilanci societari, impediscono anche investimenti sul piano organizzativo (personale qualificato) e strutturale.

DOPO IL COVID 19?

Chiusa la stagione e determinate le classifiche non senza difficoltà (la ripartenza sul campo non sarà che per pochi), il calcio italiano sin da ora dovrà cominciare a fare i conti con i risvolti di una crisi che colpirà durissima anche questa azienda plurimilionaria.

Il settore più colpito sarà senza dubbio il mondo dei dilettanti. Sarà molto difficile un’agile ripartenza per questo ambito contrassegnato dal dilettantismo vero e dal puro volontariato, quello delle piccole realtà territoriali in cui l’attività sportiva è sovvenzionata dalle piccole attività commerciali e da pochi imprenditori appassionati. Ben più complesso, se possibile, sarà ripartire per quelle aree in cui il calcio si è guadagnato una sorta di professionismo di fatto, quello dove i calciatori portano a casa veri stipendi (ben oltre i limiti) e le gestioni dei club nei grandi centri necessita sempre di grandi budget. In questo ambito, sarà necessario un vero e proprio reset di tipo culturale, partendo dal privilegiare progetti connaturali da slancio sociale sul territorio e sostenibilità economica.

In pericolo c’è soprattutto l’area della formazione, posta in capo alle scuole calcio ed ai settori giovanili (850 mila tesserati su 1 milione). Queste piccole e grandi realtà che svolgevano un ruolo di forte impatto sociale prima che sportivo ora si ritroveranno a fare i conti con la prevedibile difficoltà di aziende sponsor e famiglie, causando un vulnus pesantissimo all’intero sistema piramidale perché, in un’ottica di breve-medio periodo, il venir meno di questo essenziale bacino comporterà una riduzione del flusso dei calciatori, quindi delle società.

Il professionismo, prima di tutti, rischia di essere colpito nelle sue fragilità, scontando la sua incapacità a tenere in equilibrio il quadro dei conti. Non sono da escludere rischi di riduzione sul fronte delle entrate: un eventuale calo del valore dei diritti tv porterebbe un calo della liquidità necessaria ad alimentare anche la componente delle plusvalenze, vale a dire poco meno del 70% dei ricavi. Sarebbe una tragedia. Sarà fondamentale operare riforme che vadano ad incidere non solo e soltanto sul numero dei club con tale status ma anche e soprattutto, come presupposto di questa riduzione, su una loro nuova veste giuridica (introduzione del semiprofessionismo) e sulla flessibilità dei rapporti contrattuali.

All’interno di questo percorso di rinnovamento, i club dovranno saper modificare – anche qui con uno sforzo di tipo culturale – il proprio modello gestionale, abbandonando molti degli schemi finora utilizzati. Le difficoltà economiche potranno mettere a dura prova le società con uno o pochi imprenditori di riferimento, aprendo ad una gestione più allargata e condivisa. Non sarà più possibile rinunciare, proprio ora che serviranno idee e competenza, al management specializzato in luogo della troppo spesso invocata improvvisazione. Le nuove modalità di reclutamento dovranno puntare tutto sul settore giovanile, finalmente visto come risorsa e non come costo, e sulla qualità dei formatori.

Anche il mondo dei tifosi dovrà saper essere compartecipe di questa fase di transizione, abbassando la pressione sui club, rispettandone le difficoltà ed apprezzandone gli sforzi per una ripartenza che, ovunque, non sarà difficile.

Il calcio del dopo Covid 19, insomma, sarà parte integrante di un percorso di ripensamento e di rinnovamento che sarà comune a molte area del tessuto sociale ed economico del Paese. Sconterà inevitabilmente alcune defezioni tra le società in lizza al via dei campionati, ma potrà contare sull’entusiastico ricambio con altre. La nuova fase metterà a dura prova la capacità strategica (e finanche creativa) prima che economica dei suoi imprenditori, richiederà l’attivazione di meccanismi di cooperazione forti all’interno del sistema e la gestione di rapporti tra le componenti all’insegna della solidarietà e della condivisione di programmi.

Per raggiungere la necessaria sostenibilità, il mondo del calcio dovrà riuscire ad applicare al suo modello economico quella “circolarità” che presuppone di creare i fattori di successo al proprio interno, di investire sul proprio patrimonio umano e di migliorare il quadro dei conti valorizzando la propria attrattività e canalizzando le risorse verso il miglioramento della propria organizzazione e delle infrastrutture. Il calcio dovrà riparare i danni e dovrà rigenerarsi al proprio interno, sfruttando quella grande piattaforma che oggi si sovrappone al sistema-Paese.

Spesso il mondo del calcio ha saputo anticipare ed ispirare situazioni di rinnovamento. La speranza è che anche stavolta sappia intercettare prima e meglio le nuove dinamiche.

Giuseppe Tambone
Specialista in Diritto ed Economia dello Sport / Direttore Sportivo FIGC /Consulente aziende sportive

 

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