A volte un’immagine vale più di mille parole. Quando poi le immagini sono due affiancate una all’altra per stimolare il cortocircuito, lo scartamento laterale del pensiero e una delle due rappresenta l’iperbole assurda della provocazione e l’altra la prova evidente che la realtà è beffarda, più fantasiosa della fantasia stessa, come sapeva bene Pirandello e spesso quando meno te lo aspetti essa, la realtà, rende concreto l’assurdo, ecco che il gioco è compiuto in modo perfetto e alle persone dotate di un minimo di senso critico o ironico non resta che sorridere amaramente e pensare: che stupidi che siamo stati, che stupidi che siamo.
Oggi mentre vagavo su Twitter mi sono sentito così, un po’ stupido, di fronte a questa composizione: la foto di alcuni abitanti di Liegi in Belgio dopo le inondazioni improvvise che hanno colpito il nord Europa sommersi d’acqua fino al collo e la foto di un’opera d’arte dello scultore di strada spagnolo Isaac Cordal dal titolo “I politici discutono del riscaldamento globale” che rappresenta un gruppo di uomini di mezz’età sommersi dall’acqua. Quasi che la prima fosse d’ispirazione alla seconda foto, come spesso capita, ovvero quando la verità della realtà contamina il pensiero dell’artista nell’atto di creare la sua opera d’arte. In questo caso è invece l’artefatto artistico che anticipa la realtà, poiché altra dote del vero artista è la disposizione alla profezia. La capacità di anticipare quello che gli altri, spesso i politici, i produttori di ricchezza e le masse di elettori e di consumatori che li sostengono, non sanno vedere.
Chi è nato negli anni settanta nell’occidente ricco ha difficoltà ad ammettere che per diversi decenni alcune voci minoritarie, zittite, irrise, offese, ostracizzate in realtà avevano evidentemente qualche ragione in tema di sostenibilità ambientale, sull’affermare che l’impatto dell’uomo sul clima è reale, sulla necessità di modificare il modello di sviluppo economico, energetico, industriale. La ragione di quelle voci minoritarie, alcune delle quali sfilavano a Genova nel luglio del 2001 e che sono state annientate dalla violenza di Stato prima e dimenticate dall’apparato mediatico poi, è stata peggio che soffocata. Quella voce è stata carpita, rubata, addomestica. Dunque tradita dal potere.
Quando le classi dirigenti politiche e industriali hanno compreso la portata cruciale di quei temi e che il loro negazionismo prima e attendismo poi erano inutili di fronte all’evidenza degli eventi, più che dei dati scientifici, hanno sentito l’urgente necessità di divenire i detentori delle parole chiave che aprono la porta del futuro del pianeta: cibo, sostenibilità ambientale, responsabilità sociale, energie rinnovabili. E con la tecnica più confacente al potere e anche più efficace, quella dell’uso esperto e creativo della semantica, hanno costruito nuovo senso attorno alle parole d’ordine dei profeti di sventura. Quelle stesse parole che solo trent’anni fa li inchiodavano alle loro responsabilità e ora invece diventano il passepartout per proseguire a dominare l’immaginario collettivo e dunque il mercato, non solo economico, ma anche politico.
Non è un caso se transizione è il nuovo mantra delle classi dirigenti degli Stati occidentali. La parola magica alla quale tutti i cittadini e i consumatori della parte più evoluta industrialmente del mondo, devono rendere un tributo. La transizione, da transire, passare, significa passaggio. Spesso di stato. Dunque è il modo evoluto per indicare un momento di passaggio, che non riguarda un singolo, ma l’intera società. Il passaggio presuppone un percorso, un movimento a volte anche lento, transitorio, graduale e le masse in movimento hanno bisogno di guide, per non creare il caos, il capovolgimento, la rivoluzione. Dunque il tema della transizione ambientale in un mondo che da industriale si è trasformato in digitale è divenuto essenziale e non stupisce che ben due dicasteri della Repubblica italiana ora utilizzino il termine “ministero della transizione” (ecologica e digitale) per definirsi.
“La transizione ecologica può essere intesa come il processo tramite il quale le società umane si relazionano con l’ambiente fisico, puntando a relazioni più equilibrate e armoniose nell’ambito degli ecosistemi locali e globali. O in senso più limitato e concreto, può indicare il processo di riconversione tecnologica finalizzato a produrre meno sostanze inquinanti”. Così ci suggerisce la Treccani. Ma in entrambi i casi resta comunque un processo in divenire, un andare da uno stato di evidente pericolo ad uno presumibilmente più consono a conservare prosperità e benessere. Questa lentezza di movimento non può essere condivisa da chi grida da decenni che l’Apocalisse è vicina. Il passo lento non è accettabile per loro.Eppure resta da chiedersi come le masse, nonostante prove evidenti e continue, possano ritenere che chi ha prodotto lo stato di pericolo possa divenire anche il leader credibile del nuovo movimento di transizione verso una società altra, più sostenibile e prospera.
La vera transizione non riguarda evidentemente dunque le masse, ma riguarda i comportamenti dei singoli individui. Il vero cambiamento, il vero passaggio di stato, il vero scarto non transitorio, ma rivoluzionario, è nella capacità del singolo di farsi carico delle scelte che modificano la propria realtà e quella circostante: scelte d’acquisto, scelte di voto, scelte di abitudini, di stili di vita. Quando non si vuole cambiare, quando ci si affida alla transizione che spesso è compito demandato agli altri o allo Stato che ne acquisisce addirittura la proprietà semantica facendola divenire burocratico termine di auto-definizione e non lo si vive come un atto individuale, ecco che può apparire più semplice scegliere di affidarsi a leader che si appropriano di parole che non vivono, non sentono vere, non rendono concrete con le loro azioni.
La parola alla quale stiamo affidando la salvezza del pianeta e della specie umana forse tradisce lo scopo, perché non si transita, non si passa, da un pericolo verso la salvezza, ma dal pericolo si fugge, da un pericolo si scappa, si corre via. Transitare acquieta gli animi, non impone veri sacrifici ai singoli, rinvia il senso del pericolo. Si stempera la tensione e come nel principio della rana bollita non ci si accorge che bisognava fuggire dal pericolo prima, invece di attendere di transitare da uno stato all’altro dell’acqua, da quello liquido a quello gassoso, e nel mentre essere stati bolliti. Così senza accorgersene magari arriva il giorno che ci si ritrova letteralmente con l’acqua alla gola, ma incredibilmente non si può fare più nulla e non si sente neanche la responsabilità di aver scelto l’andatura sbagliata per lasciarsi alle spalle il pericolo.
Proprio come gli abitanti di Liegi o i politici di Isaac Cordal.
Antonello Barone