Economia

L’Italia non è un Paese per giovani

Idee e presupposti per un rilancio inclusivo del Paese che parta dalle giovani generazioni

Economia

“No country for old men” è un bel film del 2007, malinconico e a tratti pulp, diretto dai fratelli Coen e considerato già una delle migliori pellicole del XXI Secolo. Il film racconta e intreccia tra loro quelle che vorrebbero essere storie di redenzione e rivalsa sociale con l’inevitabile realtà della vita – e la presenza di uno spietato killer che ne fa le veci – che con la sua durezza e crudeltà impedisce ai protagonisti di raggiungere i propri scopi, in un’epica dal vago sapore dei vecchi film “di frontiera” che sa però di critica e denuncia sociale.

Ebbene, se il film è il racconto – a tratti persino grottesco – di un’America disillusa, fatta di grandi paesaggi, città vuote ed individui spietati ed arrivisti, al contrario l’Italia dei primi anni del XXI Secolo sembra essere un Paese ricco di potenzialità, ma anche di fragilità, che non riesce però ad emanciparsi dal ruolo di eterna e splendida incompiuta che qualcun altro gli ha riservato. Se nel film dei Coen, si parla di un Paese che non è per i vecchi, al contrario l’Italia sembra essere un luogo fatto appositamente per essi, e per i detentori di rendite di posizione, che, popolato da sempre meno giovani, fa di tutto per non includerli nella società.

Un accreditato studio del Lancet del 2020, ci dice tra l’altro che entro il 2100 la popolazione italiana sarà di fatto dimezzata rispetto a quella attuale, non solo riducendoci ad una potenza di piccola portata ma probabilmente esasperando anche la tenuta stessa del sistema previdenziale e sociale, che dovranno necessariamente essere ripensati. Gli effetti economici di questa riduzione coinvolgeranno l’Italia ancora più degli altri paesi, facendo retrocedere la nostra economia al 25° posto al mondo, una decrescita che coinvolgerà solo marginalmente altri stati come Francia e UK.

Insomma, le prospettive del lungo periodo potrebbero essere fosche, nonostante in questi giorni l’Istat abbia certificato un ritorno della fiducia degli italiani ai livelli pre-covid, vi sia un Pnrr da implementare e utilizzare per il rilancio del Paese che con la ripresa della domanda interna potrebbe far risalire (già nel 2021) il Pil al di sopra delle aspettative, al 5%.

Pur rientrando nell’ambito di un macro fenomeno di portata globale, come abbiamo visto, questo sarà più pressante in Italia che altrove anche a causa di una popolazione già oggi mediamente più vecchia rispetto al resto del mondo, record negativo che ci vede secondi dopo il solo Giappone. Eppure, vi sono almeno tre cause che inficiano lo sviluppo del Sistema Paese e che, se invertite, potrebbero aiutare i giovani italiani a vedere con maggiore ottimismo al futuro, si tratta:

  • del deficit di competenze (soprattutto digitali);
  • delle ridotte prospettive di impiego e di stabilità;
  • della presenza di un welfare tentacolare ma mal indirizzato:

 

Per quanto riguarda le competenze (digitali, finanziarie e ordinarie), siamo purtroppo nell’ambito del già detto e del già scritto. I dati dei principali indicatori internazionali ci inchiodano ancora al fondo della classifica, nonostante i pur evidenti segnali di crescita. Ad esempio, il recente Rapporto 2021 sul sistema universitario fotografa una situazione in cui in Italia la quota dei giovani con una laurea è aumentata costantemente, ma è rimasta anche inferiore rispetto agli altri Paesi Ocse, con evidenti ripercussioni in termini di competenze e competitività del rispetto proprio a questi Paesi. A questo dato, se ne collegano altri due che ne chiariscono la portata (e se possibile ne aggravano la portata). Da un lato, infatti, il Rapporto osserva una maggiore percentuale di abbandono o mancato accesso agli studi universitari da parte delle classi meno abbienti, sintomo evidente della ridotta capacità da parte del sistema universitario di garantire l’accesso allo studio a tutte le fasce sociali, fenomeno accresciuto anche da alcuni limiti culturali. Dall’altro lato, denunciamo un limitato (rispetto alle necessità e alla media OCSE) numero di laureati in materie STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Di conseguenza, ad un numero già di per sé ridotto di laureati si aggiunge il fatto che parte consistente di questi non possiede una specializzazione sostanzialmente in grado di produrre un reale valore aggiunto né per sé né per il Paese.

Ma c’è di peggio, quando i laureati si affacciano al mondo del lavoro. In Italia, infatti, la preparazione universitaria è sempre più ritenuta come non necessaria per accedere al mondo del lavoro. Tale fenomeno – riprende la Corte dei Conti – è “riconducibile sia alle persistenti difficoltà di entrata nel mercato del lavoro sia al fatto che la laurea non offre, come in area Ocse, possibilità d’impiego maggiori rispetto a quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore”. Vale a dire, che se devo spendere grandi cifre e perdere tempo per ritrovarmi addirittura in una condizione di svantaggio competitivo rispetto a chi ha iniziato a lavorare prima, senza avere nemmeno un reale plus d’ingresso, tanto vale terminare la scuola dell’obbligo e mettersi a cercare lavoro, anche perché gli stipendi medi spesso non cambiano molto tra laureati e non laureati.

Questo aspetto, conduce poi ad un altro fenomeno ancora più grave rilevato dalla Corte dei Conti e che contribuisce a depauperare il nostro Paese: si tratta della fuga di cervelli. Negli ultimi otto anni, infatti, la fuga di laureati italiani all’estero alla ricerca di migliori condizioni di lavoro (che spesso hanno anche trovato, se non nei loro ambiti anche in altri) è aumentata di ben il 41,8%, una vera e propria emorragia di giovani competenze che il nostro Paese non è stato in grado né di attrarre né di trattenere, accolti invece a braccia aperte nei paesi e nelle università estere.

I motivi alla base di questa scelta sono numerosi, ma il filo conduttore riguarda essenzialmente il fatto che in Italia ai giovani viene chiesto di resistere e sostanzialmente “scaldare la panchina” in attesa del loro momento che, verosimilmente, arriverà in molti casi non prima dei quarant’anni. Il mito, infatti, che la vita si sia allungata e che quindi certe decisioni vengano ormai prese più tardi è un fenomeno solo parzialmente vero e prettamente italiano.

All’estero non funziona così. Nei Paesi del Nord Europa, ad esempio, la media dell’età per “uscire di casa” è di circa 21 anni, mentre in Italia è addirittura oltre i 30, e non solo per il vecchio adagio per cui siamo dei bamboccioni. Un discorso simile, si può fare per quanto riguarda la data di conseguimento della laurea che in Italia supera in media i 27 anni e l’età in cui ci si sposa che da noi supera ampiamente i 30 anni, mentre secondo Eurostat in Italia si diventa mamma mediamente a 31,3 anni (dato più alto d’Europa), rispetto ai 28,8 francesi, ai 29 finlandesi o ai 27, 6 polacchi. Il tutto unito al fatto che aggiorniamo ormai periodicamente le statistiche negative riguardanti ai nuovi nati e che ormai il rapporto tra nati e deceduti staziona stabilmente in territorio negativo.

Nei giorni scorsi, poi, il Segretario del PD Enrico Letta aveva proposto di aumentare la tassa di successione per i patrimoni oltre 5 milioni di euro in modo da finanziare una dote per i diciottenni ed in qualche modo attenuare la mole di “debito” cui ciascuno di noi ha in carico fin dalla nascita . Secondo la proposta del Pd la dote arriverebbe ogni anno a circa 280mila ragazze e ragazzi: al 1 gennaio 2021 i 18enni erano 566.547 e a ricevere sarebbe il 50% di chi diventa maggiorenne, sulla base dell’Isee familiare. La proposta è stata immediatamente stoppata sia dal Premier Draghi sia dal Ministro dell’economia Franco, ritenendo che questo non fosse il momento di prendere bensì di dare. Per quanto, infatti, il sostegno ai giovani sia un dovere di ogni società in cui si vuole che le generazioni successive sopravvivano alle precedenti, è evidente che una semplice “mancia” per quanto solidale e condivisa da qualcuno non possa sostituire misure armoniche e strutturali.

All’Italia serve, infine, un nuovo welfare state, non solo orientato agli aspetti previdenziali che riguardano la popolazione matura ma anche, magari nell’ambito di un razionalizzazione generale della spesa pubblica, indirizzato a sostenere le generazioni più fragili che sono quelle  più giovani.

Oggi, la soluzione non può essere quella di mantenere a lavoro dei settantenni, mentre i loro nipoti rimpolpano le fila dei NEET (persone che né studiano né lavorano). È necessario, invece, investire in formazione e in agevolazioni fiscali (reali e rapide) per le giovani coppie.

L’Italia ha necessità di un nuovo piano di sviluppo economico e sociale pubblico che metta al centro gli individui, con politiche mirate ai giovani, alle donne e alle famiglie per una maggiore equità sociale tesa ad innescare un meccanismo di sviluppo sostenibile nel medio periodo al quale possano partecipare anche le imprese, da considerarsi alleate della società in questa sfida.

Se questa sarà la direzione e lo spirito degli interventi, il Recovery Plan che ci accingiamo ad implementare sarà un fuoco ardente che alimenterà la ripresa dell’Italia per un periodo lungo, e non un semplice fuoco di paglia che brucia ardentemente ma che si esaurisce subito, proprio perché incapace di creare le condizioni per la sostenibilità socio-economica dell’intero Sistema per le generazioni future.

 

 

Maurizio Pimpinella