Economia

Obiettivo crescita: il debito buono di Draghi fra demografia e cittadinanza

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Debito e cittadinanza. C’è una connessione carsica fra queste due parole, due temi, che Mario Draghi ha esposto nella sua ultima conferenza stampa. All’apparenza sconnesse una dall’altra e certamente senza un filo logico che le unisse nella mente del presidente del Consiglio italiano quando le ha pronunciate, ma che involontariamente hanno innescato un cortocircuito.

Un bagliore istantaneo che ha illuminato la contraddizione di un paese che vuole tornare a crescere, negando però a troppi il diritto di essere partecipi degli oneri e degli onori di questa sfida.

La prima parola è stata utilizzata per spiegare come l’Italia possa oggi permettersi uno scostamento di bilancio di 40 miliardi di euro senza che i mercati reagiscano negativamente, mantenendo anzi invariato lo spread e non dovendo temere downgrade futuri da parte delle agenzie di rating.

Perché il mondo che lentamente e a fatica sta cercando di uscire dalla pandemia è totalmente diverso da quello che abbiamo lasciato nel febbraio del 2020. Oggi tutti i governi sono consapevoli che occorra fare debito per sostenere la ripresa e garantire un supporto umanitario a tutti coloro i quali hanno subito gli effetti economici dei diversi lockdown.

Ma questo debito deve essere buono. Una espressione che lo stesso Draghi utilizzò in un intervento sul Financial Times all’inizio della pandemia per illustrare un anno prima del suo incarico governativo la propria visione su come gestire quella che definì a tutti gli effetti una guerra.

I governi – scriveva allora Draghi – devono mobilitare tutte le risorse disponibili, non importa se il costo è l’aumento del debito pubblico perché l’alternativa, una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, sarebbe ancora più dannosa per l’economia.

Ora da Presidente del Consiglio dei Ministri applica quella strategia. Fare maggiore debito non è più un rischio, in quanto ora è diventata una regola comune a tutti gli stati. Ma per l’Italia c’è l’esigenza che quel debito sia finalmente anche buono. Ovvero indirizzato a realizzare riforme che consentano lo sviluppo economico e l’equità sociale che da ormai trent’anni il paese ha smarrito. Il debito cattivo non produce ricchezza. Il debito buono sì e consentirà all’Italia, negli intenti del governo, di tornare presto ai livelli pre crisi e rimettere il paese sui binari smarriti della crescita.

Per garantire la crescita economica la più necessaria è certamente la crescita demografica. Il governo deve dare più speranze alle giovani coppie. Consentire ai giovani di entrare prima nel mondo del lavoro, di acquisire prima un’indipendenza economica, di realizzare, soprattutto per le donne, l’obiettivo della genitorialità non all’apice della carriera, ma al suo inizio grazie a un supporto legislativo di sostegno economico e a una rete di servizi sul territorio.

Investire le risorse che la crisi della pandemia ci mette a disposizione a tassi praticamente nulli per raggiungere questi obiettivi è fare del debito buono. Per aumentare la base demografica degli italiani, oltre al debito, si potrebbe percorrere anche un’altra strada, ottenendo un risultato simile in un istante con un semplice gesto di volontà politica. Per avere più cittadini italiani non è necessario fare solo più figli.

Ecco la seconda parola pronunciata da Draghi: cittadinanza. Utilizzata in un modo stranamente nervoso, con la fretta di chi non voleva essere tirato per la giacca sul tema della cittadinanza onoraria da garantire a Patrick Zaki, dopo l’iniziativa parlamentare della sua maggioranza alla quale il governo ha espresso parere favorevole.

Lo studente egiziano che da oltre un anno giace in detenzione preventiva in una prigione de Il Cairo può divenire un simbolo e mettere in luce quanto sia fondamentale in un mondo globalizzato essere scelti come luogo dove vivere. La cittadinanza a Zaki ha un valore sul fronte dei diritti umanitari e sulla capacità dell’Italia di dialogare con i regimi unendo interessi economici e rispetto dei propri valori e della dignità dei propri cittadini.

Sarebbe però anche un segnale fortissimo di speranza per tutti quei ragazzi nati o cresciuti in Italia, che parlano italiano, che hanno frequentato le scuole italiane, visto la tv italiana, navigato sui siti italiani, mangiato italiano e ai quali la cittadinanza è negata fino alla maggiore età e a volte anche oltre.

Il tema dello ius soli e dello ius culturae non può essere escluso da un ragionamento più ampio sulla crescita del Paese e sulla necessità di una crescita demografica. Chi nasce in Italia e chi vive in Italia per un determinato periodo deve essere un cittadino italiano.

Una riforma semplice, una riforma buona. Una riforma che non produce debito, ma che ci consentirebbe di ripagare un debito nei confronti di tutti quei ragazzi che sono italiani per esperienza di vita e si sentono italiani nella mente e nel cuore e che un sistema politico con la testa rivolta al passato non riesce a guardare negli occhi e riconoscere.

 
La cittadinanza per Zaki, la cittadinanza per tutti i ragazzi nati in Italia. 
 
 
Antonello Barone