All’assioma, diffuso sulla rete dallo storico accademico e brillante divulgatore di vicende e personaggi del passato Alessandro Barbero, secondo cui “non esistono leggi storiche assolute, a parte una: mai invadere la Russia”, occorre aggiungere “e men cha mai l’Afghanistan”.
Non sono solo gli Stati Uniti che sono usciti sconfitti dall’invasione bellica, lanciata venti anni or sono nel triplice intento di sopprimere la base operativa di Al-Qaeda, ritenuta nascosta tra le impervie montagne dell’Afghanistan, catturare l’architetto dell’attacco alle torri gemelle Osama bin Laden e liberare il paese dal regime oppressivo dei talebani.
Tutti e tre gli intenti sono falliti. La base di Al-Qaeda non fu mai trovata, Osama bin Laden fece perdere di sé ogni traccia e passarono dieci anni prima che fosse scovato e ucciso, non in Afghanistan ma in Pakistan. Il regime talebano fu effettivamente soppresso ma, come i recenti fatti dimostrano, il successo dell’operazione si è alla fine rivelato una vittoria di Pirro.
Fino all’invasione sovietica del 1979, l’Afghanistan era un paese pressoché sconosciuto fuori dall’Asia. In Occidente era oggetto di interesse solo fra gli storici dell’età alessandrina e gli archeologi alla ricerca di tracce della spedizione di Alessandro Magno nella regione di Bactria, antico nome dell’odierno Afghanistan.
In un libro intitolato “Into the Land of Bones: Alexander the Great in Afghanistan” (Nella terra delle ossa: Alessandro Magno in Afghanistan), lo storico e archeologo americano Frank L. Holt raffronta, con dovizia di particolari, l’invasione di Alessandro Magno (329 a.C.) con quelle condotte dal Regno Unito (1839-42, 1878-80, 1919), dall’Unione Sovietica (1979-89) e l’ultima, intrapresa dagli Stai Uniti nel 2001. Il libro è stato pubblicato nel 2012 e quindi prende in rassegna i primi dieci anni dell’impresa bellica americana ma, sulla base dell’esperienza vissuta dagli invasori precedenti, ha previsto con largo anticipo la ritirata delle forze armate statunitensi.
Come quella di Alessandro Magno, le successive invasioni, avvenute in tempi più o meno recenti, finirono col cedere all’asprezza di fattori avversi. L’inclemenza del clima e l’impervietà dell’ambiente naturale, l’ostinato etnocentrismo della popolazione locale e l’irriducibile belligeranza dei combattenti per la liberazione non permisero agli invasori di acquisire il pieno controllo del territorio, obbligandoli al ritiro.
In tutti i casi, pertanto, e in particolare nel caso degli Stati Uniti, il ritiro non è avvenuto come un fulmine a ciel sereno. I media di tutto il mondo hanno raffigurato l’evacuazione delle truppe americane e della Nato come un’iniziativa inattesa mentre in realtà era stata prospettata già da tempo. Cinque anni fa, l’amministrazione Obama aveva drasticamente ridotto le truppe da 90mila a 9800 unità e quella successiva di Trump aveva intrapreso negoziati con i talebani, non perché ritenesse possibile un accordo ma come anticamera all’uscita di scena.
L’impossibilità per ogni forza d’invasione di uscire vittoriosa dall’Afghanistan ha conferito a questo paese l’epiteto di “graveyard of empires” (cimitero degli imperi) ma la sua indomabilità deriva anche da acerrime divisioni tribali che lacerano da sempre la sua gente. La riconquista del paese da parte dei talebani è stata infatti agevolata dai dissidi intestini tra i diversi gruppi etnici, gli uni contro gli altri armati per accaparrarsi fette sempre maggiori degli aiuti economici americani e internazionali, e quanta più peso possibile in governi scaturiti da elezioni aspramente contestate dalle forze politiche contendenti e formati dietro forti pressioni da parte delle gerarchie militari statunitensi.
Adesso che gli americani se ne sono andati, anche per i talebani non sarà facile assumere il pieno controllo della nazione. È vero che hanno subito dato avvio alle epurazioni e alla restaurazione della legge islamica con le relative forti limitazioni della libertà femminile ma, per quanto ferreo sia il regime che vorranno imporre, si troveranno di fronte una popolazione non più disposta a chinare la testa dopo i vent’anni nei quali ha usufruito delle libertà civili garantite, specie nei centri urbani, dalle forze di occupazione americane.
Questo aspetto, non appariscente e ignorato da quanti hanno scritto e scrivono sulla crisi afghana, è destinato nel tempo a ridimensionare l’entità del fallimento della missione statunitense.
Umanamente comprensibili le scene di disperazione e panico riprese dalle telecamere all’aeroporto di Kabul dopo l’arrivo dei talebani nella capitale afghana, come condivisibili i sentimenti di sollievo provati da quanti sono riusciti ad imbarcarsi sugli aerei messi a disposizione dagli Stati Uniti e dalle nazioni europee – fra le quali, non ultima per slancio umanitario, l’Italia – per gli afghani più soggetti a subire ritorsioni dal regime talebano.
Le riprese all’aeroporto di Kabul hanno sicuramente ricordato ai cultori del cinema le scene iniziali del film realizzato da Frank Capra nel 1937, “Orizzonte perduto”, ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore britannico James Hilton. L’aereo a bordo del quale i protagonisti del film fuggono dalla Cina caduta in balia delle forze armate giapponesi, finisce per schiantarsi in una zona sperduta delle montagne dell’Himalaya.
I passeggeri, rimasti indenni dall’incidente, vengono soccorsi e portati in una valle incantata nella quale sorge un’idillica comunità chiamata Shangrilà, un’oasi di serenità fondata oltre due secoli prima da un missionario belga per preservare i valori di fratellanza e di vita altamente civile dai mali e dai continui conflitti del mondo.
Imbarcandosi sugli aerei adibiti agli sfollamenti, gli afghani fuggitivi, molti dei quali mai prima allontanatisi dalla loro terra, hanno probabilmente sperato di essere diretti verso un mondo ordinato e accogliente. Ma, pur trovandovi rifugio e salvezza, l’Occidente è destinato a rivelarsi per loro tutt’altro che un’oasi di serenità. All’orizzonte perduto in patria non farà seguito una Shangrilà.
Elenoire Laudieri