In molte delle conferenze e delle lezioni che ho tenuto negli ultimi anni, ho definito i dati personali come “l’oro nero” dell’economia digitale, attribuendo loro un esplicito valore quasi monetario quantificabile di cui dovremmo sempre tenere in debito conto ogni volta in cui accediamo ad un qualsiasi servizio online, anche perché è proprio sulla gestione dei dati che le big tech hanno costruito i loro imperi.
Ebbene, il recente schema di decreto attuativo in corso di adozione dal parte del Governo in attuazione della direttiva europea 2019/770 (la cui entrata in vigore è attesa per il 1 gennaio 2022), di fatto ammettono l’utilizzo dei dati per l’acquisto di contenuti digitali, con buona pace della tutela della privacy che, però, ne esce tutt’altro che indebolita. Anzi, la notizia è da accogliere con favore. L’esplicitazione di una pratica comune già da tempo, infatti, contribuisce a fugare buona parte delle ambiguità che riguardano la protezione dei dati e l’ambito di applicazione ponendo le basi per una regolamentazione puntuale del fenomeno.
Fino a poco tempo fa era, ad esempio, in voga un adagio secondo il quale “se un prodotto digitale ci viene fornito gratuitamente il prodotto siamo noi”, ovvero i nostri dati personali. Il cambiamento che segue la svolta normativa prevede invece la liceità dello stabilirsi di un negozio giuridico tra chi offre un servizio e chi lo paga attraverso la cessione delle proprie informazioni.
Si tratterebbe di un nuovo paradigma “filosofico” nell’ambito della gestione del dato personale, non più solo considerato come inalienabile estensione della persona ma anche come potenziale strumento di pagamento che ciascuno di noi può (se lo desidera) cedere.
L’istituzione di una regolamentazione giuridica del rapporto di cessione configura anche non solo maggiori tutele ma anche maggiori servizi nei confronti del contraente debole (cioè di chi cede il dato)
Allo stesso tempo, è nel riconoscimento per legge di un dato di fatto e del valore del dato e della sua “cedibilità” che risiede anche il rafforzamento stesso della sua tutela. Anche se la direttiva evita di considerare i dati come una merce ma conferma la loro utilizzabilità come un corrispettivo avente valore commerciale per ottenere determinati servizi.
A questo proposito, si apre poi il capitolo della qualità del dato, ovvero di quantificarne il valore. Quanto vale un nome e un indirizzo; le cessioni saranno permanenti o limitate al periodo di utilizzo del bene o servizio; i dati sono tutti uguali o quello di una persona considerata più qualificata è più prezioso e quindi permette l’accesso a maggiori o migliori servizi?
In prospettiva, potrebbe nascere un mercato estremamente complesso, volubile, non ugualitario, fluttuante e composto di varie ramificazioni e livelli, pertanto sarebbe bene ragionare da subito su questo genere di interrogativi, anche al fine di evitare che le eventuali differenze di valore non incidano anche sulla legittima uguaglianza giuridica di ogni individuo.
Ma le questioni non si fermano qui, e quelle più recenti si aggiungono a quelle di vecchia data.
Nell’universo digitale che viviamo e che contribuiamo ad alimentare ogni giorno, infatti, scambiamo costantemente dati: dai social network, ai navigatori, dai pagamenti ai video giochi eccetera. È arrivato il momento di sviluppare anche in Italia una vera e propria economia del dato basata su progetti, strumenti e competenze in grado di incrementare notevolmente la nostra capacità non solo di resilienza ma anche di ripresa e sviluppo economico.
Esempio lampante di questo fenomeno è, ad esempio, il settore del turismo – il più colpito dalla pandemia – in cui a parte il numero di presenze e al massimo la nazionalità degli ospiti non siamo ancora in grado come sistema di conoscere altre preziose informazioni che ci aiuterebbero da un lato ad offrire servizi migliori e dall’altro ad attrarre nuovi e maggiori flussi turistici anche al di fuori dei periodi e dei territori più battuti.
Si tratta di un peccato mortale che già paghiamo carissimo ma che potrebbe ampliare ulteriormente la forbice nei confronti dei paesi più attrezzati, perché non si può campare per sempre di rendita e, nel mondo connesso di oggi, senza la capacità di elaborare e governare le informazioni e senza una programmazione consapevole almeno di medio periodo, ogni attività economica è destinata ad essere al minimo depotenziata o a non avere alcun successo.
Dare il giusto valore al dato e costruire una coerente economia attorno ad esso è già di per sé una strategia di lungo periodo che garantisce anche la sostenibilità economico-sociale dell’intero Sistema Paese.
Maurizio Pimpinella