Renzi sembra (ancora una volta) da solo. L’unico fra i politici a porre ad alta voce il problema che qui abbiamo posto da qualche settimana: iniziamo a ragionare sulla exit strategy ed i suoi tempi. Di fronte alla sua uscita c’è stata una levata di scudi. Alcuni politici (Crimi, 5S) preferiscono riprendere l’ipotesi di un reddito di cittadinanza “di emergenza”. Qualcuno inizia a parlare di “patrimoniale” per pagare il costo sociale di questa emergenza.
I politici italiani italiani magari ne parlano solo per negarla (un approccio che come sappiamo,funziona nella comunicazione pubblica quasi come una conferma), molti politici Europei non ne parlano, ma sappiamo come la pensano sul debito pubblico italiano. La conferma è arrivata proprio nella settimana della discussione su Covid-bond o MES incondizionato, con i segnali di stop dal nord Europa.
Il governo, forse spaventato, sembra orientato – per ora – a sostenere la posizione di virologi ed epidemiologi: di riapertura non se ne parla, forse fra un mese e per le scuole anche dopo.
Una posizione che ha senso nella prospettiva sanitaria, ma che inizia a risultare non convincente per una quota crescente di opinion leader soprattutto sul fronte dell’economia: Confindustria, banchieri importanti, centri studi prestigiosi.
Tutti orientati ad una riapertura in tempi ragionevoli (e più brevi), con le adeguate cautele, s’intende.
Tutti sembrano al momento concentrati sulla riapertura delle fabbriche e del tessuto produttivo, che è senza dubbio il primo passaggio importante. Ma senza una quasi contestuale ripartenza dei consumi interni, in presenza di un commercio internazionale ancora stordito, si rischia una sorta di crisi da sovra produzione, senza considerare le filiere non industriali : i servizi (alle persone ed alle imprese), l’entertainment, il turismo e quant’altro, che non sopravviveranno a lungo pur con l’aiutino di una cassa integrazione od un obolo a fine mese.
Proviamo dunque a fare punto su questa benedetta exit strategy e sulle sue condizioni.
In primo luogo sarebbero da evitare le gestioni all’italiana: un misto di implorazioni, minacce, divieti e tante contraddizioni. Dichiariamo di proteggere gli italiani e li lasciamo fuori dai supermercati in code chilometriche (almeno qui a Milano) per un’ora o due, anziani, mamme con bambini e tutti gli altri. La distanza in coda è più o meno la stessa della distanza che normalmente terrebbero dentro il super, è proprio necessario?
In secondo luogo: sarebbe da evitare la demonizzazione chi si ammala, soprattutto di chi se la cava senza rendere più complessa la situazione del sistema sanitario. Stiamo demonizzando gli infetti che o non hanno sintomi o ne hanno una quota minima da poter essere confusi con una normale infreddatura stagionale.
Troppi messaggi anche da autorità nazionali e regionali sembrano dire: “cerchiamoli e staniamoli,
organizziamo agguati ai supermercati provando la temperatura, impediamoli di entrare, mettiamoli in
quarantena che non facciano danni”. A parte il fatto che già oggi siamo tutti in quarantena, quale è il risultato sociale conseguito?
Oggi essere “infetto” (peggio se infetto e quasi in buona salute) è diventata quasi una condanna sociale, non uno stato che genera sentimenti positivi presso gli altri. Forse si dovrebbe ragionare in
modo opposto: chi si è ammalato ed ha resistito senza finire ospedalizzato dovrebbe essere una risorsa per la società.
Senza inneggiare alla teoria del Gregge, però qualche buon anticorpo lo avrà. Diciamo che gli infetti non sintomatici (o debolmente sintomatici) siano oggi un milione circa (le famose 10 volte gli infettati
conclamati), se non un paio di milioni. Questa massa, una volta superata la loro fase debolmente acuta
potrebbe essere una risorsa per ridurre l’impatto del virus, non un esercito di untori da scovare e condannare.
Se vogliamo finalmente fare degli screening di massa della popolazione sana per avere finalmente una
statistica vera sulla mortalità rispetto ai reali contagi, su quanti ce l’hanno fatta senza impattare sul sistema sanitario, facciamoli, ma anonimi e basati su campioni di buona robustezza.
Non cerchiamo untori quattro secoli dopo l’ultima peste.
Quello che ci sembra più importante – nella tristezza del periodo – è costruire una comunicazione sociale che aiuti gli italiani, non solo a guarire, anche ad uscirne socialmente vivi. Da qui nascono le considerazioni – magari azzardate – sul tema specifico della exit strategy.
Le considerazioni girano tutte attorno ad un concetto: più nudging, meno imposizioni e pietismi. Contro pietismi e minacce vorremmo fosse più in voga un sano ed anglosassone “nudging”. Ovvero: facilitare i comportamenti positivi attraverso incentivi (morali e non solo). La demonizzazione (o la minaccia) è la morte del nudging per intenderci.
Cosa significa nudging in una exit strategy?
- Ad esempio, evitare gli atti di imperio dove l’Autorità ritiene di sapere cosa deve essere fatto e
“obbliga i cittadini” a farlo. Ad esempio, quello che si sta pensando di attuare sulla ripresa lavorativa: il dividere le persone in classi di età e rimandarle al lavoro come se fossero coorti forzate (sinteticamente: avanti i giovani, i lavoratori maturi confinati in casa). Tornare al lavoro deve essere un atto volontario, socialmente utile (nello spirito di tante bandiere italiane esposte ai balconi) magari incentivato, moralmente e non solo. Non una leva militare. - Concordare con le aziende delle principali aree metropolitane un piano di impiego delle risorse (mixando presenza in ufficio con telelavoro) in modo che le fasce orarie critiche del trasporto pubblico e privato abbiano meno affollamento.
- Incentivare le aziende che non usano la cassa integrazione e non ricorrono a licenziamenti: avevamo già citato l’esempio di Daimler in Germania che ha dichiarato circa una settimana fa, che non avrebbe avuto bisogno di finanziamenti pubblici ed avrebbe tenuto tutte le sue persone senza licenziamenti. A dire il vero nel novembre del 2019 aveva annunciato 10mila licenziamenti, ma come dice il film, nessuno è perfetto. L’esempio resta; l’esempio di qualcuno che – potendoselo permettere – sviluppa una policy di sostenibilità senza usare ammortizzatori sociali e pratiche socialmente critiche. Non lo potranno fare tutti, ma anche quei pochi devono essere aiutati nella loro strategia, da tutti, a partire dalle istituzioni. Le forme di incentivazione possono essere morali (il club delle aziende socialmente responsabili) o semplicemente di supporto in caso di necessità. La cassa integrazione non è una soluzione, l’Italia non potrebbe reggere a lungo, affianchiamo a questa altre misure per aiutare le imprese che possono stare in piedi senza Cassa.
- Identificare i gesti quotidiani a cui viene attribuito più significato e puntare su quelli per massimizzareil senso di sollievo e generare positività sociale, nel rientro graduale alla normalità. Non siamo certi che l’esempio sia perfetto ma serve almeno a spiegare la logica. Ipotizziamo che un gesto “simbolico ed importante” sia la “riapertura” dei supermercati. Ovvero quando nei supermercati si potrà tornaread entrare senza coda e senza controlli, quando oltre a invitarti ad entrare magari all’ingresso, assieme ai guanti, ti verrà offerta un simulacro di mascherina. Immaginiamo che una normalizzazione parta da gesti del genere o da tutti gli altri simili che rappresentano dei veri e propri marcatori di normalità. Da sociologi possiamo solo consigliare di studiare questi marcatori. Ci sembrano più utili di tanti sondaggi oggi pubblicati che misurano il presente. Qui abbiamo bisogno di futuro.
- Identificare poi tutte le attività “en plein air” che con la bella stagione massimizzano il senso di libertà della popolazione, senza alzare oltre modo il rischio infettivo e liberalizzarle. Ad esempio, la riapertura dei parchi, la cessazione dell’ostracismo per chi fa sport all’aperto (pur con le precauzioni sulle attività collettive).
- Per poi procedere con la riapertura di negozi, bar e ristoranti, (sempre con qualche precauzione, che tanto oggi sarebbero i clienti degli stessi locali a chiedere)
- Senza dimenticare la ripresa della circolazione fra le regioni. Su questo punto la proposta più rischiosa ed osè (che sarà probabilmente bocciata da molti): usare il periodo pasquale per un esperimento di normalizzazione (lasciando agli italiani il decidere cosa fare, dopo due mesi di prigionia). Come farlo per tenere il rischio sotto controllo può essere discusso: lasciare riattivare le seconde case che il 35% delle famiglie italiane ha, lasciare libertà per la classica gita di Pasquetta. Nessuno pretende di avere risposte definitive, ma il ragionarci non è mai sbagliato.
Gli italiani, hanno capito cosa è successo e non sono dei risk taker eccessivi ed hanno una certa (disordinata) modalità di autocontrollo, anche solo per protezione di sé stessi e della propria famiglia. Si può pensare di controllarli con uno stato di polizia, ma questo, per l’ammissione dei Giolitti e dei Mussolini non ha mai avuto un grande successo (“Governare gli Italiani non è difficile. È semplicemente inutile”).
Già oggi la quota di italiani che soffre la clausura è stimata dai sondaggi (SWG) fra il 25 ed il 30%: è ancora una minoranza, ma non troppo esigua. Crescerà nelle prossime settimane. Dallo Hubei, provincia apparentemente pacificata e “guarita” arriva due giorni fa una notizia che dovrebbe farci pensare se non bastassero le analisi economiche ad accelerare il ragionamento sulla exit strategy: “Sommossa nell’Hubei dopo la quarantena, a migliaia assaltano la polizia” (AGI 27 marzo). Non dimentichiamo l’emergenza sanitaria, anzi rinforziamo la nostra capacità di risposta, ma non fermiamoci qui. Renzi, al di là di ogni simpatia politica per noi ha ragione, anche da solo contro tutti. Un governo che vince la guerra non è detto che vinca anche la pace. Churchill, più volte richiamato nelle invocazioni sull’unità nazionale delle prime settimane, ha vinto la guerra e perso le elezioni immediatamente successive. Qualcuno dovrebbe ricordarselo.