Quando i nomi definiscono una (scomoda) verità

Tra reddito e ius scholae, una cittadinanza contesa

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Basta la parola: cittadinanza. Ed è subito polemica. In effetti la Costituzione non definisce con precisione che cosa si intenda per cittadinanza e quindi come si ottenga, da chi può o deve essere concessa. Se ne parla peraltro nell’art. 22 che afferma “Nessuno può essere privato per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Ma è una legge del 1992 che continua a disciplinare la concessione della cittadinanza a chi risponde di particolari requisiti di residenza, famiglia, conoscenza della lingua: nel 2020 sono state oltre 130mila le cittadinanze concesse dal ministero dell’Interno attraverso le Prefetture che raccolgono e vagliano le domande.

Il requisito di base, per gli extracomunitari, è la residenza per almeno dieci anni nel territorio italiano, un requisito che avrebbe potuto essere reso più flessibile attraverso quello che è stato chiamato “ius scholae”, cioè la concessione della cittadinanza a coloro che abbiano frequentato la scuola in Italia per un certo numero di anni. Una proposta di legge, appoggiata dal Partito democratico e dai 5 Stelle, ma immediatamente avversata dal centro-destra, che è stata peraltro uno dei motivi di scontro all’interno delle forze che appoggiavano il Governo Draghi.

La stessa cittadinanza, peraltro, vista dalle destre come un modo per regolarizzare ed incrementare l’immigrazione, è diventata una bandiera dei 5 Stelle che hanno fatto del reddito (di cittadinanza appunto) una delle loro bandiere identitarie. Una misura che è già costata 20 miliardi (da aprile 2019 a fine 2021) e che ha creato occasioni di lavoro soprattutto alla Guardia di finanza impegnata a contrastare le frodi: in Lombardia lo scorso sono stati scoperte più di 8mila persone che percepivano il sussidio senza averne alcun diritto.

Non si vede peraltro perchè la “cittadinanza” possa o debba motivare un reddito. Siamo in una Repubblica “fondata sul lavoro” che giustamente prevede (art. 38 della Costituzione) che “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Quindi lo Stato deve intervenire in casi ben precisi e motivati. Una logica ben diversa dalla concessione di un reddito per il solo fatto di non averne altri. Una logica che spinge al lavoro nero e all’evasione fiscale. E che costituisce una spinta a rinunciare a molte opportunità come dimostrano le tante offerte non soddisfatte di impieghi stagionali nel settore turistico.

La cittadinanza dovrebbe essere considerata una dimensione seria. Uno status che impone dei doveri (di responsabilità e di partecipazione) più che dare spazio alla rivendicazione di diritti.

Gianfranco Fabi, 19 luglio 2022

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