Ogni volta che mi sono trovato a visitare una delle città simbolo del nostro Paese sono sempre stato attratto dalle espressioni dei turisti stranieri: un misto tra incredulità e stupore al cospetto di tanta bellezza e tanta perfezione, consapevoli di una perfetta unicità dei luoghi.
Immaginare città paragonabili a Venezia, Firenze, Roma (l’elenco potrebbe continuare all’infinito) è impossibile perché esse sono la sintesi di una civiltà millenaria unica che ha fatto del nostro Paese uno scrigno nel quale sono custodite la gran parte delle opere d’arte del nostro pianeta.
Noi Italiani siamo custodi di luoghi unici ed inimitabili, non trasportabili e quindi legati per sempre al nostro territorio ed alla nostra cultura.
Questo non è banale: il fatto che vi siano ricchezze e bellezze destinate a restare per sempre in un luogo fisico può indurre chi lo abita a commettere il gravissimo errore di banalizzare ciò che agli occhi di altri appare invece tanto straordinario da venire a goderne, a volte solo per poche ore, dall’altra parte del mondo. Tanto le apprezzano che, pian piano, le nostre città vengono acquistate un pezzo per volta da chi poi le trasformerà (in alcuni casi siamo già a buon punto) inevitabilmente in ciò che non meritano di diventare.
La stessa cosa potremmo dirla per il nostro patrimonio eno-gastronomico, frutto di una collocazione della nostra Italia nel bel mezzo del Mediterraneo. Questo ci ha regalato una serie incredibile di microclimi dai quali traiamo, da secoli, prodotti della terra unici al mondo per varietà e qualità. Essi sono diventati la base della dieta mediterranea, universalmente riconosciuta come la migliore al mondo.
Suggerisco a questo proposito di cercare su Youtube un video di Oscar Farinetti dal titolo “La fortuna di nascere in Italia”, una sintesi davvero perfetta di quello che significa essere orgogliosamente italiani. Io quel giorno ero lì e sono stato fiero di esserlo.
Quella del food, però, è una ricchezza che, da anni, in troppi ormai stanno cercando di rubarci, imitando i prodotti della nostra terra con robaccia che di italiano ha, nella migliore delle ipotesi, una bandierina tricolore sulla confezione, nulla di più.
E così tra Parmesan (parente poverissimo del Parmigiano Reggiano), Zottarella (improbabile imitazione della Mozzarella di Bufala) e Kressecco (prosecco di quart’ordine) l’”italian sounding” impazza nel mondo, truffando i nostri produttori (quelli veri) e sottraendo continuamente quote di mercato a chi queste celebrità le ha create davvero.
Oltre a tante parole ben poco si è fatto in ambito comunitario – e non solo – per proteggerci dalla confusione con prodotti di terz’ordine travestiti da prodotti di eccellenza.
Il “made in Italy” è diventato sinonimo di qualità, soprattutto nella moda, con i grandi marchi che ci hanno fatto conoscere in tutto il mondo per il gusto e lo stile che gli italiani hanno nel loro DNA. Ma anche questi sono stati spesso oggetto di attenzioni imprenditoriali (più o meno discutibili) da parte di altri, provenienti da oltreconfine, che se ne sono appropriati delocalizzando produzioni e depredandoci di qualcosa che era parte di noi, della nostra cultura. Perché tutto ciò, perché non riusciamo a mantenere nostro ciò che abbiamo costruito e tramandarlo alle nuove generazioni?
Ecco, le nuove generazioni, appunto! Anche qui stiamo riuscendo nell’impresa di formare nelle nostre scuole e nelle nostre università ragazzi validissimi che poi, finiti gli studi, fuggono all’estero per contribuire allo sviluppo ed alla creazione di ricchezza di coloro che, fra qualche anno, verranno a fare shopping delle nostre migliori aziende.
Forse dovremmo rivedere qualcosa, facendo leva su tutte le nostre risorse e su quei punti di forza che sono propri della nostra gente.
Tra questi la nostra incredibile capacità di risparmio, tra le più alte al mondo. Una ricerca di Prometeia dell’ottobre 2019 ci fornisce alcuni dati su cui credo valga davvero la pena di riflettere.
Gli Italiani detengono una ricchezza finanziaria di circa 4.400 miliardi di euro di cui circa un terzo, e cioè 1.400 miliardi, in liquidità. Nel solo periodo gennaio-ottobre 2019 ad essi si sono aggiunti ben 46 miliardi che i nostri connazionali hanno accumulato sui propri conti correnti.
Ricordando la nota favola di Esopo saremmo classificati senz’altro tra le formiche e non certo tra le cicale.
Ma formiche molto sprovvedute perché, dopo esserci sacrificati lavorando e dopo aver rinunciato a godere dei frutti del nostro lavoro, il risparmio accantonato ci sta rendendo davvero poco. Sempre Prometeia ci dice che circa la metà degli intervistati detiene tutta la propria ricchezza finanziaria in liquidità la quale, già da alcuni anni, è praticamente infruttifera.
Moltissimi nuclei familiari, si stima circa 4 milioni, non hanno investito la loro liquidità da circa 15 anni perdendo così oltre il 30% del loro reale potere d’acquisto. In altre parole hanno risparmiato per divenire, anno dopo anno, sempre più poveri!
A pensarci bene, però, questa grande virtù di noi italiani potrebbe essere la nostra stessa salvezza.
Se questa enorme massa di denaro destinata a svalutazione certa – stante gli attuali tassi di remunerazione della liquidità (nella migliore delle ipotesi pari a zero) e l’effetto erosivo dell’inflazione – fosse destinata a valorizzare il nostro patrimonio artistico e culturale, la nostra capacità ricettiva di qualità, la nostra bio-diversità agricola ed il settore enogastronomico potremmo risolvere davvero molti problemi.
Una proposta potrebbe essere quella di istituire un Istituto di Ricostruzione Economica ad-hoc, sulla falsariga dell’IRI degli anni ‘30, ad azionariato diffuso e che possa emettere obbligazioni a lunga scadenza finalizzate esclusivamente ad investimenti diretti o finanziamenti nei settori tipici della nostra economia (turismo, beni artistici e culturali, agricoltura di qualità, eno-gastronomia).
Le obbligazioni emesse potrebbero essere controgarantite (magari solo parzialmente) dallo Stato o da Cassa Depositi e Prestiti in luogo di emissioni di titoli del debito pubblico che farebbero cumulo nel rapporto debito/PIL.
Una opportuna campagna di sensibilizzazione degli italiani, una sorta di “chiamata alle armi” che faccia appello al senso civico di tutti coloro che hanno a cuore il proprio Paese e che possono fare qualcosa per il bene comune potrebbe lanciare questa iniziativa epocale.
Quanti italiani sarebbero disposti a finanziare quello che potrebbe ritornare ad essere il motore della nostra economia partecipando al capitale della società emittente o acquistandone titoli di debito?
Se lo facessimo con il 10% delle nostre attuali giacenze in conto corrente (ognuno di noi immagini per quanto verrebbe coinvolto) si potrebbero immettere in questi settori qualcosa come 140 miliardi di euro, cioè oltre l’8% del PIL.
A chi converrebbe invece non farlo?
Facciamo due conti: ipotizzando che io detenga 100.000 euro in un conto corrente nelle casse statali finirebbero il 27% della remunerazione (la media dei rendimenti comunicata dll’ABI ad Aprile 2019 era dello 0,36% lordo), oltre a 34,20 euro di imposta di bollo. In totale fanno 131,40 euro, cioè lo 0,13% della somma. Se non vi fossero interessi (cosa molto frequente) l’introito si limiterebbe alla sola imposta di bollo, cioè lo 0,034% della somma. Praticamente zero.
Quindl lo Stato, e con esso i risparmiatori, non hanno alcuna convenienza a che questa enorme massa di denaro resti stagnante nei conti correnti.
Questo potrebbe essere uno dei motivi per poter agevolare fiscalmente, fino alla completa esenzione, tali investimenti da parte dei privati penalizzando, al contempo, la detenzione in conto corrente di somme di denaro oltre una certa soglia e per un certo periodo di tempo (es. Istituendo una tassa per la detenzione di liquidità dopo un anno di giacenza e rendendola progressivamente crescente con il passare del tempo).
Si indirizzerebbe così, con una “spinta gentile”, una enorme massa di denaro verso investimenti produttivi e finalizzati a scopi ben individuati già in partenza, con conseguente generazione di ricchezza che, a sua volta, porterebbe importanti entrate fiscali nelle casse statali.
I cittadini italiani che finanziassero questa iniziativa potrebbero avere diritto a bonus per la fruizione di servizi museali, per trascorrere vacanze nelle località turistiche del nostro Paese, per l’acquisto di prodotti eno-gastronomici ed agricoli di aziende che loro stessi hanno finanziato.
Sarebbe un modo per incentivare i consumi interni e, allo stesso tempo, per creare mercato alle nostre aziende. Si creerebbero tantissimi posti di lavoro in settori che nessuno potrebbe mai trasferire altrove, radicando i giovani sul nostro territorio anzichè farli fuggire via, evitando una crisi demografica irreversibile ed irreparabile che vanificherebbe i sacrifici delle precedenti generazioni.
Si potrebbero creare percorsi formativi scolastici altamente specializzati nella gestione dei beni culturali, del turismo, della ristorazione, della ricettività alberghiera dove gli studenti avrebbero già uno sbocco lavorativo pressochè certo una volta terminata la scuola.
Altre opere strategiche finanziabili con questa modalità potrebbero essere la prevenzione dei rischi idrogeologici del territorio e la riqualificazione delle nostre città al fine di renderle attrattive ma, ancor prima, sicure e funzionali, con la realizzazione di opere pubbliche quali parchi, giardini, strutture sportive, trasporti pubblici a basso impatto ambientale .
Tutto ciò creerebbe ricchezza “indotta” rivalutando un patrimonio immobiliare di cui (anche qui) gli italiani sono tra i maggiori detentori al mondo.
Ma soprattutto: quanto lavoro potrebbe creare tutto ciò?
Non dimentichiamoci che una società dove tutti hanno l’opportunità di guadagnarsi da vivere lavorando rappresenta la massima espressione di civiltà e di integrazione sociale.
E quante entrate per le casse statali in termini di imposte dirette ed indirette?
Sappiamo che l’edilizia e le grandi opere sono tra i maggiori volani e con più alto moltiplicatore della spesa pubblica (o privata) nella creazione di nuova ricchezza.
In altri termini l’Italia tornerebbe finalmente agli italiani.
Ad uno shock come quello del Covid-19 bisogna rispondere con altrettanta forza e determinazione. Sono convinto che ricorrere a vecchie ricette o a nuove soluzioni che nascondono vecchi trucchi da parte di chi (Frau Merkel, Monsieur Macron & C.) non vede l’ora di vederci in ginocchio sia del tutto inutile se non, come credo, dannoso.
Cogliamo questa occasione epocale per cambiare passo, per cambiare il nostro punto di osservazione della realtà. Prendiamo coscienza che abbiamo un grande potenziale (il nostro risparmio privato) che, se ben utilizzato, può rivelarsi la nostra arma vincente.
Trasformiamo la paura di una patrimoniale – che tanto preoccupa in questo momento gli italiani – in voglia di contribuire alla riscossa di un Paese che, uscito da una guerra mondiale, seppe creare dal nulla un “miracolo economico” senza precedenti dimostrando cosa è capace di fare.
Perdere altro tempo significa mortificare le nostre risorse, diventare giorno per giorno sempre più poveri senza accorgersene, con l’illusione di non correre questo pericolo. Non farlo sarebbe da sciocchi: è come farsi portar via la casa per non poter far fronte ai debiti avendo però il materasso pieno di banconote. Tiriamole fuori, usiamole bene nei settori in cui siamo unici e non abbiamo concorrenza da parte di nessuno semplicemente perché la concorrenza, come detto, non può esserci.
Impariamo a proteggere e valorizzare quello che abbiamo solo noi e nessun altro.
In qualche posto nel mondo potrebbero ricostruire fedelmente Venezia o il Colosseo, Santa Maria Novella o Assisi ma tutti saprebbero trattarsi di sonore patacche per turisti di bassa lega. Chi volesse sfruttarle non potrebbe far altro che comprare gli originali, ed è quello che qualcuno sta facendo o vorrebbe fare. Non dimentichiamo che la Grecia è stata costretta a (s)vendere i suoi due principali porti (Pireo e Salonicco) a tedeschi, francesi e cinesi. E con il Partenone c’è andata molto vicina.
Dormire ancora sonni tranquilli, aspettando che qualcuno ci chiami per tenderci la mano, può diventare molto pericoloso soprattutto perché l’opinione pubblica già da diversi giorni non parla più di MES ma di riapertura del campionato di calcio.
Nell’antica Roma “panem et circenses” era una soluzione, ma andando avanti così il primo dei due rischia di scomparire sotto i denti di troppa gente.
Agire subito vorrebbe invece dire liberarsi dal cappio tenuto in mano da qualcuno che la sta tirando per le lunghe con la certezza che prima o poi ci infileremo la testa senza poterne più uscire.
E gli italiani tornerebbero ad essere quelli che, senza l’aiuto di nessuno, riprendono in mano il proprio destino dimostrando ancora una volta al mondo che quello che abbiamo – e che gli altri ci invidiano – non lo abbiamo ereditato per caso.