Tutto pronto per il partito di Draghi?

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“Un governo che cerca di non fare danni è già molto”. Draghi vestendo i panni sagaci di Andreotti all’Assemblea annuale di Confindustria ha sfornato una di quelle battute così tipicamente romanesche capaci di strappare un sorriso e chiamare anche l’applauso che cresce lento e sfocia prima in clamore e poi in acclamazione. Ma dopo, quando il rumore è scemato e torni con la mente sulla battuta, senti tutta la veemenza della sua corrosiva acidità contro il vero obiettivo della stoccata.

Con il gioco retorico della modestia, se poi sia falsa lo valuterà ciascun lettore, Draghi dice agli industriali e per loro tramite a tutto il Paese: io non faccio miracoli o cose eccezionali, cerco solo di non fare come quelli di prima, io non faccio danni. L’ex Governatore della BCE sottolinea il fatto di non essere come la maggior parte dei presidenti del consiglio che lo hanno preceduto al governo dell’Italia.

Gli altri, quasi tutti, hanno prodotto guai per la nazione. Lui non ne fa. Gli altri, quasi tutti, erano espressione dei partiti. Lui non lo è. Gli altri, quasi tutti, avevano mille equilibri da garantire, lasciando il paese immobile. Lui no, lui opera al di sopra degli equilibri dei partiti e delle fazioni e corre verso l’Europa.

Per questo poi puoi permettersi di concludere la frase dicendo: “ma solo non fare danni non basta per affrontare le sfide dei prossimi anni, in primis le tensioni geopolitiche, il protezionismo, ma anche il probabile mutare delle condizioni finanziarie, il graduale affievolirsi degli stimoli di bilancio, é quando l’intero quadro di riferimento politico, economico e sociale cambia che più occorre essere uniti per non aggiungere incertezza interna a quella esterna”.

Draghi chiama all’unità il Paese, oltre la politica che gioco forza è già unita sotto la sua guida. Chiede alle forze associative e sindacali di stringere un patto di unità nazionale per agguantare la tigre della ripresa e cavalcarla insieme. Riformare il paese, senza lo scontro sociale. Questo il disegno. Il vero miracolo. Con i partiti anestetizzati dalla grande ammucchiata doverosa, rinchiusi nel recinto della campagna elettorale delle amministrative a farsi dispetti, senza produrre alcun danno vero all’andamento del governo, lo schema di Draghi appare realizzabile.

Le ritrosie di Salvini sul vaccino e il green pass più che spaccare il governo o mettere in difficoltà la maggioranza parlamentare dilaniano la Lega e le sue due anime: quella sovranista guidata dal segretario e quella pragmatica guidata dal ministro Giorgetti e dai presidenti di Regione Zaia, Fontana, Fedriga.

I distinguo velati e astiosi e i richiami alle scelte prese all’inizio di legislatura di Conte smuovono solo gli animi malinconici dei pochi nostalgici dell’avvocato del popolo, ma non scalfiscono di un nulla la direttrice veramente riformista, garantista, europeista, atlantista dell’attuale presidente del consiglio. Men che meno le titubanze del segretario del PD nel mostrarsi più draghiano o meno contiano riescono a distogliere Draghi dalla sua andatura.

Infine il ruolo di oppositrice dura e pura della Meloni se da un lato accresce fisiologicamente la sua forza nei sondaggi dall’altro allerta e coagula attorno a Draghi quella maggioranza del paese notoriamente disinteressata alla politica, perché cresce il rischio di un futuro governo con alla guida la destra erede del Movimento sociale italiano.

Quella che si prospetta è dunque un’era ciampiana, come ha sottolineato in un tweet non del tutto compreso l’attento deputato del PD e già portavoce nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, Filippo Sensi: “Ben venga una stagione ciampiana, credo sia più che utile, necessaria. Nella chiarezza, ovviamente”.

Ecco per era ciampiana certo possiamo intendere una fase della politica dove i partiti demandano la leadership dell’esecutivo a una personalità di prestigio internazionale e garante di equilibri esterni al paese. Una stagione dove la concordia sociale sia concretizzata attraverso una concertazione vera e strutturata tra le parti sociali con il governo che faccia da promotore e garante. Una fase dove un obiettivo ambizioso (ieri entrare nell’euro, oggi ricevere, riuscendo a spenderli in tempo, i fondi del Next Generation EU), possa essere raggiunto attraverso una forte azione riformatrice approvata dal parlamento su spinta dell’esecutivo. Una stagione che inevitabilmente, in caso di successo si concluda con l’ascesa del suo felice esecutore al colle più alto di Roma.

E qui giunge il nodo temporale per comprendere quanto tempo davvero possa durare la stagione ciampiana di Draghi. Se come appare chiaro nel 2022 poco sarà concluso del processo riformatore che ci garantirà di godere davvero delle risorse europee, è evidente che Draghi non potrà lasciare il suo ruolo di presidente del consiglio.

Mattarella sarà disposto a restare un anno in più per dare tempo al suo pupillo di finire la legislatura? E poi, nel 2023 davvero il paese potrà fare a meno di una guida che sinora si è dimostrata nettamente al di sopra di qualsiasi altra offerta politica interna ed esterna al governo, attualmente proposta dai partiti?

Sarebbe più auspicabile che l’esperienza del governo Draghi plasmi la definizione di una diversa proposta politica da presentare al vaglio degli elettori alle elezioni del 2023. Un’area di responsabilità, riformista, europeista, atlantista che abbia l’orizzonte minimo del 2026, anno entro il quale spendere e rendicontare alla Commissione Europea le risorse del PNRR.

Gli industriali applaudono, gli italiani si vaccinano, le agenzie di rating alzano il pollice in su, il PIL s’impenna, gli azzurri di tutti gli sport vincono, gli altri leader europei orfani della Merkel sospirano di sollievo guardando a Roma. L’Italia di Draghi non fa danni, è già molto. Ma non offrire al paese una nuova offerta politica che possa garantire una vera continuità a questa stagione politica sarebbe il danno più grande che potrebbe commettere Draghi.

 

Antonello Barone

 

 

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