Economia

Un messaggio di ottimismo per il nostro paese

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A quasi 2 anni dallo scoppio della pandemia e con migliaia di miliardi iniettati dalle banche centrali di tutto il mondo sui mercati, gli investitori si stanno interrogando su dove posizionarsi per il futuro alla ricerca di rendimenti interessanti ma con rischi il più possibile calcolati. Per questo a livello globale il settore del private equity sta conoscendo una stagione di grande euforia.

Questo segmento di mercato offre infatti strumenti finanziari che partecipano al capitale di società non quotate dell’economia reale e per questo, in un momento di grande trasformazione globale e con svariati nuovi settori emergenti trainati dalla cosiddetta economia 4.0, investire nelle aziende del futuro, fuori dalla volatilità e, lasciatemi dire, a volte schizofrenia dei mercati, si rivela una delle scelte migliori per chi ha pazienza e lungimiranza.  

Per quanto il passato non sia necessariamente un indicatore del futuro, è indubbio che questo tipo di investimenti abbia da sempre generato rendimenti superiori ai mercati quotati e per questo è stato scelto in maniera crescente dagli operatori istituzionali dei paesi anglosassoni e nord Europei. Purtroppo l’Italia come spesso capita è rimasta indietro e la percentuale di questo tipo di investimenti nei portafogli di fondi pensione e fondazioni è ancora molto inferiore rispetto agli omologhi internazionali.

Non parliamo poi dei risparmiatori privati. Da un lato perchè il nostro paese ha beneficiato per decenni di tassi di interesse molto elevati su BOT e CCT, dall’altro perchè volenti o nolenti, la cultura finanziaria del Bel Paese non brilla nelle classifiche internazionali ed è stata focalizzata soprattutto al breve piuttosto che avere orizzonti di lungo termine. Basti pensare che risiedono inattivi sui conti correnti bancari italiani, oltre 2000 miliardi di Euro in attesa di una collocazione più redditizia ed efficiente.

Il maggior risparmio è forse uno dei pochi aspetti positivi della pandemia, che però al rovescio della medaglia mostra un netto calo dei consumi e degli investimenti. Secondo Unimpresa, che ha elaborato dati della Banca d’Italia, l’anno scorso le riserve liquide sono aumentate di circa l’8%, pari quasi alla frenata del PIL, cosa mai registrata dal dopoguerra. Certamente la crisi sanitaria ha calato il suo carico da novanta, ma la paura e l’incertezza unite ad una lentezza decisionale atavica, rischiano di causare danni ancora peggiori. Eh sì, non dovrebbero, eppure lo stanno facendo. Ecco quindi che tornare ad un certo ottimismo è quanto meno auspicabile se non addirittura indispensabile.  

Ma non è poi così impossibile farlo se si guarda oltre la paura. Secondo una recente ricerca di una società indipendente inglese, infatti, l’Italia si pone fra i Paesi leader della green economy nel mondo, insieme alla Germania e agli Stati Uniti. A posizionare il nostro Paese in cima alla classifica delle “green growth tigers”, facendo il verso alle ruggenti economie asiatiche del ventunesimo secolo, è uno studio condotto dalla Oxford Martin School e dalla Smith School of Enterprise and the Environment, che ha analizzato il potenziale di crescita green delle nazioni a partire dalla loro capacità di esportare prodotti sostenibili e tecnologicamente avanzati.

Alcuni economisti hanno dimostrato, infatti, che i Paesi che esportano prodotti più sofisticati tendono a sperimentare una crescita economica più rapida. Per valutare il potenziale di crescita economica a basso impatto ambientale, gli studiosi sono partiti dalla costruzione del primo e più grande database di prodotti green tecnologicamente avanzati collocati sul mercato dai diversi Paesi, attribuendo loro un punteggio in termini di complessità tecnologica. Già questa prima elaborazione della ricerca, secondo gli autori, ha costituito un passaggio cruciale perché il database fornisce ai governi uno strumento pratico per avere un quadro della attuale capacità di export per settore, ma ancor più per valutare come possono indirizzare gli investimenti e stimolare la crescita green in base alle proprie strutture produttive e al know-how tecnologico già acquisito.

In aggiunta a questa ricerca, che pone l’Italia in cima alla classifica, ci sono anche i dati confortanti provenienti dalle borse. Infatti, seppur con un certo ritardo, anche nella nostra penisola l’uso di strumenti finanziari è cresciuto negli ultimi 25 anni. Sia per i privati che, cosa più importante, per le imprese. In particolare è stato molto incrementato l’utilizzo della quotazione in Borsa. E per Borsa non si intende solo il mercato delle grandi imprese (FTSE-MIB), ma anche l’AIM (Alternative Investment Market), ovvero quello dei capitali riservati alle piccole imprese, almeno a quelle che possano rispettare i severi requisiti per la quotazione.

Parametri che riguardano un track record di successo, con utili e fatturato in crescita, solidità finanziaria e reddituale e moderato ricorso all’indebitamento. Nonostante questo, a livello relativo in Italia sono quotate solo lo 0,12% delle Società esistenti contro lo 0,42% della Francia o il quasi 0,50% del Regno Unito e della Germania. Dunque il nostro paese resta un terreno di caccia molto allettante per chi è alla ricerca di piccole e medie imprese non quotate ma di eccellente qualità, ovvero i target preferiti per gli operatori di Private Equity.

Certo una legislazione meno farraginosa e complicata, unita alla certezza del diritto sarebbero un acceleratore fondamentale di questo cambiamento, ma la strada è tracciata e non è sbagliato guardare con ottimismo al futuro soprattutto perchè questo tipo di investimenti prevede un orizzonte di medio lungo periodo con l’immobilizzazione dei capitali per almeno 8 o 10 anni. Ma è anche vero che si fa un gran parlare di sostegno all’economia reale e di transizione ecologica e sostenibile, dunque viene da dire: se non ora quando?

In conclusione, parafrasando il grande Alessandro d’Avenia: “A colui che attende con serietà e determinazione giunge spesso ciò che attendeva, mentre a coloro che si limitano a sperare capita di frequente l’esatto opposto.”

 

Alex Ricchebuono