Paolo e Francesca si sono conosciuti durante una crociera. Paolo vive ed ha una bella casa a Bologna, è perito di una grande compagnia di assicurazioni. Francesca vive invece a Forlì, dove è disegnatrice di moda. Una storia come tante altre. Iniziano a frequentarsi e avviano una vera e propria convivenza. Un po’ a Bologna e un po’ a Forli, a seconda della necessità di lavoro e degli impegni familiari dato che spesso Francesca aiuta e assiste l’anziana madre.
Tutto bene quindi. Ognuno paga le proprie tasse ed entrambi sono esenti dall’Imu dato che le rispettive abitazioni sono considerate prima casa.
Tutto bene fino a quando non decidono di sposarsi, come è naturale che sia dopo una breve o lunga convivenza. Il matrimonio non cambia la loro situazione “civile”: continuano ad avere, come permette la legge, la residenza effettiva nei due comuni originari dove peraltro hanno i loro interessi economici e familiari.
Ma il matrimonio cambia la loro situazione fiscale. Da quest’anno, infatti, in base alla legge di bilancio, (per la precisione in base all’art. 5 – decies del Dl 146/2021, convertito nella legge 215/2021) nel caso in cui i membri del nucleo familiare abbiano stabilito la residenza in immobili diversi, siti nello stesso Comune oppure in Comuni diversi, l’agevolazione prevista per l’abitazione principale spetta per un solo immobile, scelto dal nucleo familiare.
Una vera e propria imposta patrimoniale aggiuntiva sul matrimonio. Se Paolo e Francesca avessero continuato a convivere avrebbero risparmiato del tutto legalmente tra i mille e i duemila euro all’anno.
Per una norma con molti aspetti di incostituzionalità. Non solo perché viene penalizzata la famiglia, i cui diritti dovrebbero esser garantiti dall’art. 29 della Carta fondamentale, ma anche perché si contraddice l’art. 53 della stessa Costituzione dove si afferma che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Qualcuno può dimostrare che il matrimonio aumenta la “capacità contributiva” e quindi può essere soggetto ad una tassa in più?
La ratio del provvedimento è palesemente quella di combattere l’elusione fiscale, quella dei furbetti del quartierino che stabiliscono la loro residenza a Cortina o a Courmayeur per non pagare le tasse sulla seconda casa. Ispirandosi ai cartelli che accolgono i clienti nei bar di paese (“per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”) la legge ha considerato tutti furbetti da punire, anche coloro che hanno serie ragioni di lavoro o di famiglia per avere una effettiva residenza separata, in zone peraltro che hanno ben poco di “turistico”.
Certo deve essere una residenza effettiva. Ma basterebbe dare ai Comuni la possibilità di controllare le utenze (cioè le bollette di gas, acqua ed elettricità) per stabilire se una persona è effettivamente residente o ha compiuto una scelta di aggiramento fiscale.
La stessa possibilità di controlli (e di sanzioni) sarebbe un deterrente sufficiente per convincere i cittadini ad evitare scelte di semplice elusione fiscale. Ma il legislatore ha preferito imporre una nuova tassa, una tassa che peraltro contraddice anche l’esigenza di agevolare i matrimoni con la creazione di nuove famiglie che attenuino il sempre più pericoloso calo demografico.
Gianfranco Fabi, 22 giugno 2022