Quelle domeniche a piedi….
L’embargo deciso dai maggiori paesi produttori di petrolio, come risposta alla guerra del Kippur nell’ottobre del 1973, mise in grossa difficoltà i paesi europei. L’Italia varò un piano di emergenza fatto di tante misure più simboliche che reali. Come il blocco del traffico privato alla domenica, ma non solo.
La guerra era scoppiata all’improvviso, proprio nel giorno del Kippur, una delle più importanti feste ebraiche. Era l’ottobre del 1973 e, come nella guerra dei sei giorni nel 1967, le forze israeliane riuscirono prima a resistere, poi a sconfiggere l’alleanza dei paesi arabi.
La risposta di questi ultimi tuttavia sfociò in una serie di sanzioni verso l’Occidente con un blocco delle forniture di petrolio a cui seguì un forte aumento dei prezzi: dai 3-4 dollari al barile (che in pratica rappresentava il puro prezzo di estrazione e trasporto) il greggio passò in poche settimane a 15-18 dollari, un prezzo dettato questa volta dalla legge della domanda e dell’offerta.
I paesi europei si trovarono, come oggi, a rispondere ad una crisi dei rifornimenti delle fonti di energia e in particolare l’Italia dovette varare una serie di misure per cercare di limitare i consumi petroliferi. L’annuncio degli interventi venne dato all’allora presidente del Consiglio, Mariano Rumor, un democristiano alla guida di un Governo come si usava a quel tempo con l’alleanza tra Dc, liberali, socialdemocratici e repubblicani.
La televisione era ancora tutta in bianco e nero perché l’introduzione del colore, già tecnicamente possibile fin dalla metà degli anni ’60, era stata bloccata per evitare che gli italiani spendessero in consumi voluttuari (come era considerata la tv a colori) in anni in cui sarebbero stati necessari austerità e rigore. Era stato soprattutto il leader repubblicano Ugo La Malfa a costringere gli italiani che volevano vedere a tv a colori a sintonizzarsi, ove possibile, sui canali della Svizzera, di Montecarlo o di Capodistria.
Nel suo accorato discorso alla nazione Rumor annunciò la pillola amara che gli italiani avrebbero dovuto ingoiare. Si iniziò con il blocco della circolazione delle auto alla domenica: gli italiani riscoprirono la bicicletta e trasformarono quella scelta in un’occasione di festa con un vago sapore di ritorno all’antico.
Ma c’erano anche altri interventi per incentivare a non sprecare energia elettrica. Venne così decisa la fine dei programmi televisivi alle 23: e allora c’era solo la tv pubblica. Venne poi spostato l’orario del Tg1 dalle 20,30 alle 20 (una scelta praticamente inutile, ma da cui non si tornò più indietro). Si stabilì poi una riduzione dell’illuminazione pubblica nelle strade e lo spegnimento dei cartelli e delle insegne pubblicitarie.
Misure tutt’altro che rivoluzionarie, anzi in qualche caso controproducenti: senza poter uscire in macchina per la gita fuori porta alla domenica gli italiani restando a casa aumentarono i consumi di elettricità.
Emerse in quel periodo la fragilità e la dipendenza dell’Italia sul fronte dell’energia. Ma fu una lezione che non servì praticamente a nulla. Negli anni successivi, per esempio, l’Italia rinunciò a compiere nuovi investimenti nell’energia idroelettrica. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, all’inizio degli anni ’60, conferì all’Enel le centrali realizzate dalle società private, ma senza compiere nuovi investimenti in quest’ambito e puntando tutto sulle centrali a gas e in piccola parte ad energia nucleare fino al 1987 quando un referendum, pochi mesi dopo il disastro di Chernobyl, mise una serie di ostacoli, più politici che tecnici, allo sviluppo dell’atomo.
Oggi come cinquant’anni fa l’Italia si ritrova a dover fare i conti con una politica energetica ondivaga e poco incisiva. La forte dipendenza dal gas russo si affianca infatti al marginale sviluppo delle fonti alternative. Si sono spesi e si spenderanno miliardi per finanziare, con il famoso 110%, il miglioramento della resa energetica negli edifici con una misura che potrà riguardare non più del 2-3% del patrimonio immobiliare e che consentirà risparmi più che esigui nei consumi energetici finali.
Invece ci sono state diffuse opposizioni a molti interventi che avrebbero potuto diversificare l’offerta. Si vè andati dal blocco alle trivellazioni, agli ostacoli all’aumento delle estrazioni, dai contenziosi infiniti per la realizzazione dei rigassificatori, agli ostacoli ai nuovi gasdotti come la Tap (il gasdotto che porta il gas in Italia dall’Azerbaijan senza passare dalla Russia e che la cui realizzazione è stata osteggiata in tutti i modi, ma per fortuna senza successo, dai Cinquestelle).
Nell’immediato, tra riserve e gasdotti ancora aperti, non ci saranno problemi di approvvigionamento, ma comunque pesanti aggravi perché le quotazioni di gas e petrolio sono volate alle stelle. Ma tra qualche mese i nodi verranno al pettine sul fronte delle quantità. E guardando al passato non si può certo pensare di risolvere i problemi con le domeniche a piedi.
Gianfranco Fabi, 8 marzo 2022