Per chi come me è nato a fine anni ‘70, il ricordo della Lira è ancora vivo. I nostri genitori, inoltre, si ricordano sicuramente bene del prelievo forzoso sui conti correnti e della svalutazione della Lira da parte del governo Amato il quale, fra l’altro, pur effettuandola, non ebbe mai il coraggio di chiamarla con il suo vero nome. Meglio dire agli italiani che il marco tedesco si rivalutava rispetto al dire che era la nostra valuta che si svalutava. Si sperava forse che nessuno si sarebbe accorto che le BMW e le Mercedes in pochi giorni costavano il 6% in più.
Eppure, qualche anno prima, negli anni ’60 il prestigioso Financial Times insigniva la nostra Lira del titolo di “moneta più stabile dell’anno”. All’epoca con 620 lire si comprava un dollaro, mentre il 19 luglio del 1985, un venerdì funesto per la nostra valuta, ce ne volevano 2.200, anche a causa di episodi ancora non del tutto chiariti, fra cui un famoso ordine da parte dell’ENI relativo all’acquisto di 125 milioni di dollari che Bankitalia non riuscì a far annullare.
Il 1985 fu la vetta massima di un’epoca di svalutazioni ripetute della lira nei confronti del dollaro. La crescita annua media negli anni ’60 invece era maggiore di quella delle più grandi economie mondiali. Dal punto di vista sociale inoltre, disoccupazione, povertà ed analfabetismo andavano scomparendo e si iniziava ad avere un benessere diffuso.
Negli anni ‘60 in Italia, nel frattempo, inizia a comparire un nuovo strumento di investimento per le nostre amate Lire: il fondo comune. Risale al 1968 la prima sottoscrizione di fondi comuni in Italia, per opera di alcuni finanzieri, che in assenza di regole immettono sul mercato i primi fondi di investimento, chiamati fondi Atipici, organizzati e gestiti seguendo i principi mutuati dall’esperienza del mondo finanziario anglosassone. L’inizio è timido e ce ne vorrà di tempo prima che prendano piede.
La prima sottoscrizione in Italia di fondi comuni come li conosciamo oggi risale solo al 1984. In altre parti del mondo le cose invece sono diverse. Da un punto di vista storico è difficile dire chi sia il fondatore dell’industria del risparmio gestito, sembra però che furono gli olandesi i primi ad istituire le case di investimento. Negli USA i primi fondi comuni risalgono al 1924. Il più antico è l’MFS Massachusetts Investors Trust, che fra l’altro è ancora attivo con 7.6 miliardi di masse in gestione.
Nel 1929 invece nasce il primo fondo bilanciato, il Wellington Fund, che tutt’oggi si vanta di essere il primo fondo bilanciato del mondo. Neanche negli USA durante gli anni ’20 i fondi spopolano, forse anche a causa di un problemino chiamato “Crisi del ‘29”, che però li danneggiò poco dal punto di vista della performance in quanto, essendo stati fondati solo recentemente, erano ancora pieni di liquidità da investire; ma già negli anni ‘60 i fondi iniziarono ad affermarsi, fino a diventare uno strumento di investimento standard per gli americani dalla seconda metà degli anni ‘80. Nel mezzo ovviamente ci furono periodi di alti e bassi, fra cui la recessione del 1969, che vide molti investitori uscire dal risparmio gestito appena gli fu possibile. Ad ogni modo la crescita dell’industria continuò imperterrita.
Negli anni ’70 nacque un’altra novità, Wells Fargo ideò il primo fondo passivo, invenzione che poi Bogle sfruttò per fondare Vanguard e farla crescere fino a diventare il colosso che è oggi. Il primo fondo indicizzato per il mercato retail fu il Vanguard 500 index. Ci vorrà un po’ però prima che gli ETF si affermino, è solo nel 21° secolo che questi strumenti iniziano a diffondersi ovunque e negli USA oggi hanno una quota di mercato di oltre il 50%. Una delle frasi più famose con cui Bogle ha cercato di promuovere questi strumenti in diretta competizione con lo stock picking è la seguente: non cercare l’ago nel pagliaio, compra il pagliaio.
In un mondo in continua evoluzione però, potrebbe presto arrivare anche in Italia un nuovo strumento in diretta concorrenza col mondo degli ETF, il direct indexing. In poche parole, si tratta di uno strumento che consente di replicare la performance di un indice acquistando le singole azioni sottostanti anziché inserire un ETF nel portafoglio dell’investitore.
Un tempo questa tipologia di investimento era riservata solo ad una clientela Private, ma ora grazie anche alle piattaforme di trading low cost, potrebbe diffondersi anche fra la clientela meno abbiente. Ad esempio, se un cliente desidera inserire nel proprio portafoglio l’S&P500, col direct indexing acquisterebbe tutte le azioni dell’indice, questo grazie anche al sistema degli investimenti frazionati, che consente di acquistare anche parte dei titoli di aziende dal prezzo “importante”, come Apple o Tesla.
Ovviamente si può poi scommettere su più indici, ribilanciare il portafoglio oppure personalizzarlo escludendo qualche titolo non gradito, magari perché poco “green”. Un punto di forza importante di questa strategia è sicuramente il vantaggio fiscale, visto che possedere direttamente i titoli permette la compensazione di plus e minusvalenze, diversamente da quanto previsto per il mondo dei fondi. Ovviamente non ci sono solo vantaggi. Mentre gli indici come l’S&P500 sono molto liquidi, investire su mercati più ristretti può creare qualche problema di liquidità dei sottostanti e qui sarebbe preferibile usare altri strumenti.
Il direct indexing non sarà il prodotto per tutti già da domani. Come per gli ETF, ci vorrà del tempo prima che si affermi e venga usato diffusamente. Certo è che dalla sua ha due grossi punti di forza:
- I bassi costi, forse anche inferiori a quelli degli ETF
- L’efficienza fiscale
La speranza è sempre quella che il moltiplicarsi degli strumenti di investimento per i clienti li porti ad investire sempre più consapevolmente, attingendo alle abnormi masse di liquidità che giacciono nei conti correnti, quantomeno per evitare di pagare la tassa più occulta e sgradevole, l’inflazione.
Alessio Benaglio, 22/11/2021