Le quotazioni di Tim in questi giorni in Borsa potrebbero ispirare un romanzo giallo. Solo ieri il gruppo telefonico italiano ha perso un quarto della propria capitalizzazione subito dopo la presentazione del nuovo piano industriale post scorporo della rete e vendita dell’asset al fondo americano Kkr.
Non è certo frequente vedere uno dei 40 titoli del paniere principale di Piazza Affari fare un capitombolo del 23% in poche ore e perdere 1,5 miliardi di valore di Borsa. Solo ieri sono state scambiate azioni Tim per un quantitativo pari al 7% del suo capitale.
A fornire il movente per l’attacco a Tim è stato un piano industriale che non ha convinto gli analisti, soprattutto nella traettoria che traccia sulla riduzione del debito. Non è poi stata considerata molto attraente neppure la prevista crescita del business.
A parte le perplessità degli analisti sulle aspettative industriali di Tim, a pesare sul suo crollo in Borsa sono state con ogni probabilità anche le “stop loss” con cui i software degli investitori istituzionali vendono in automatico quando un titolo cade a picco.
Un modo per limitare i danni ai propri sottoscrittori, ma che ieri si è trasformato in un generalizzato e incontrollabile panic selling. Il contesto perfetto per far scendere in campo anche i fondi hedge, magari con qualche massiccio ordine di vendita allo scoperto, cioè senza possedere fisicamente le azioni Tim prima di venderle.
Diciamo subito che si tratta di una pratica assolutamente legale. Tanto che mentre scriviamo Tim in Borsa sta recuperando poco meno del 3%, probabilmente proprio per alcune “ricoperture” tecniche.
Va anche detto che l’indebitamento rappresenta una ferita aperta per il gruppo Tim dal 1999. Quando l’oggi scomparso Roberto Colannino si è messo a capo di un gruppo di imprenditori della “razza padana” e l’ha scalata con l’appoggio finanziario della Mediobanca di Enrico Cuccia e il via libero politico della sinistra allora al governo. Quella di Colannino è stata la “madre di tutte le Opa”, sigla che in finanza significa “Offerta pubblica d’acquisto”.
Tim passerà poi attraverso molte gestioni, azionisti (da Pirelli al fondo Elliott) e dalle strategie di numerosi amministratori delegati ma senza mai risolvere davvero il fardello del debito anche a causa di un mercato sempre più concorrenziale sui margini.
Fino ai giorni nostri, appunto con lo scorporo della rete, che il governo Meloni considera un asset strategico per il Paese, progettato dall’ad Pietro Labriola. Uno Spin off che però osteggia Vivendi, primo azionista di Tim con circa il 23,7% ma di fatto oggi esclusa dalla gestione.
Il gruppo media francese, a cui fa capo anche Canal+ e controllato dalla famiglia del finanziere bretone Vincent Bollorè, ha appena annunciato di aver nuovamente svalutato la propria quota in Tim, accusando un onere prossimo a 1,3 miliardi.
Il tutto in un momento delicato per gli equilibri delle tlc italiane visto che l‘inglese Vodafone, dopo aver lasciato alla porta Iliad e la sua offerta, sta ora trattando in esclusiva per cedere le proprie attività in Italia con gli svizzeri di Swisscom (a cui fa capo Fastweb).
La parola sul terremoto che ha abbattuto Tim in Borsa passa alla Consob. Alla Authority guidata da Paolo Savona spetta verificare se tutto si è svolto regolarmente pur in un contesto altamente speculativo o se invece c’è stata qualche forzatura di troppo.