Tra il governo di Giorgia Meloni e Stellantis, che malgrado abbia la sede all’estero resta la prima impresa del Paese, ormai è guerra aperta. L’esecutivo tira dritto sull’obiettivo di un milione di auto prodotte in Italia, Stellantis replica che senza aiuti è impossibile, perché mancano le condizioni economiche.
Dopo l’attacco del ministro delle Imprese Adolfo Urso e la proposta di una sfida televisiva, a guidare la controffensiva è stato ieri Carlos Tavares: il governo italiano “dovrebbe proteggere meglio i suoi posti di lavoro invece di attaccarci”, ha scandito con una inusuale durezza l’amministratore delegato di Stellantis in una intervista a Bloomberg. In ogni caso il gruppo franco-italiano non ci sta a diventare il “capro espiatorio del governo davanti ai lavoratori in bilico”.
La tensione istituzionale esplode. Adolfo Urso replica piccato che il nostro Paese è pronto a entrare nel capitale del big dell’auto e pareggiare la presenza dello Stato francese (6% circa). Insomma Torino non ha che da chiederlo. Così, è il messaggio implicito di Urso, gli impianti italiani non saranno più penalizzati dalle parallele richieste di Parigi a tutela delle proprie fabbriche.
L’operazione potrebbe avvenire attraverso Cdp, a cui aveva già pensato il Mario Draghi ma si era visto chiudere la porta in faccia. Urso ha quindi ricordato come l’esecutivo italiano abbia lavorato a Bruxeless per cambiare la norma sugli Euro 7, proprio come voleva Torino.
L’oggetto del contendere è puramente economico, cioè come suddividere gli incentivi. Il governo ha annunciato un nuovo piano di ecobonus da quasi 1 miliardo, ma secondo Tavares non bastano. Perché, in estrema sintesi, l’auto elettrica continua a costare troppo e quindi non è competitiva sui grandi volumi commerciali.
In pratica, Stellantis vorrebbe che all’elettrico siano destinate maggiori risorse, mentre il governo ha deciso di ripartire lo stanziamento su più obiettivi, dando spazio anche agli incentivi all’usato e al cosiddetto “leasing sociale” per le quattro ruote. Perché, è il ragionamento di Urso, il miglior modo per aiutare l’ambiente è stare accanto ai redditi bassi e svecchiare il parco circolante. Va detto che in Italia ci sono ancora su strada diverse vetture Euro4.
Stellantis però deve occuparsi del proprio bilancio. In definitiva, gli impianti del nostro Paese sono a rischio dal punto di vista dei la tenuta dei volumi produttivi e quindi dell’occupazione. Le preoccupazioni si concentrano su Mirafiori e Pomigliano. Vediamo perché:
- a Mirafiori si producono la 500 elettrica, Maserati Granturismo Maserati Grancabrio e il Suv levante. La prima vende bene in Europa ma non ha ancora centrato gli obiettivi dell’azienda e da sola non basta a saturare quello che è stato lo stabilimento simbolo del Lingotto. Nè possono fare molto le catene di produzione del Tridente, marchio per definizione del lusso e quindi di nicchia. Poi ci sono attività green, a partire da quelle relative alle batterie.
- le catene di montaggio di Pomigliano mettono invece strada la Panda ibrida, è il modello dell’ex Fiat che va meglio nelle preferenze degli automobilisti ma dal 2026 uscirà di produzione. Poi ci sono la Maserati Tonale (per ora non elettrica) e la Dodge Hornet, che è destinata al mercato americano.
In entrambi i casi Stellantis deve ancora decidere quali modelli saranno affidati ai due impianti. Di certo non aiutano nè il fatto che il marchio Fiat abbia perso il primato delle vendite in Italia nè il fatto che la Panda elettrica sarà prodotta in Serbia.
Ancora di più pesa però l’ossessione dell’auto solo elettrica imposta dai talebani dell’ambiente. La virata green richiede infatti alle Case produttrici enormi investimenti, probabilmente insostenibili. Basti dire che la stessa regina dell’elettrico europeo, la Norvegia, sta finanziando le vendite delle auto con la spina grazie i proventi del petrolio. Un assurdo. Mister Toyota, uno che di automotive se ne intende, è già stato chiaro: “L’auto elettrica non dominerà mai il mercato”. Forse varrebbe la pena dargli retta.
Per approfondire leggi anche: il cortocircuito da 10 miliardi di Renault sull’auto elettrica con il caso Ampere. Qui invece come la crisi del Canale di Suez mette in tensione l’industria dell’auto, anche sui pezzi di ricambio.
Per non parlare della scarsità, perlomeno in Italia, delle colonnine di ricarica appena si esce dalle grandi città. Le elezioni europee di giugno potrebbero cambiare la maggioranza. Se vincesse il centrodestra, potrebbe cadere l’anatema Ue contro i motori tradizionali e aprire il serbatoio delle nostre auto a nuovi carburanti green.