Il Tesoro scende in Eni e incassa 1,4 miliardi per puntellare il conti pubblici

L’obiettivo è raccogliere 20 miliardi in tre anni. Pesa il disastro Superbonus

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Giorgetti Eni

Compie un altro passo avanti il piano di dismissioni delle grandi partecipate pubbliche con cui il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti punta ricavare 20 miliardi entro tre anni. A finire sul mercato, tramite una procedura di vendita accelerata, sono state ieri poco più di 91 milioni di azioni Eni, equivalenti al 2,8% del capitale della società.

Le azioni della multinazionale dell’energia guidata da Claudio Descalzi sono state cedute a un prezzo unitario di 14,85 euro, con uno sconto rispetto ai valori di Borsa di mercoledì. Sconto di pragmatica e necessario per attrarre gli istituzionali. Ecco perché oggi Eni in Piazza Affari si è allineata alla valorizzazione ed è risultatala peggiore del listino principale (-2,2%).

I titoli ceduti in parte costituivano il “cuscinetto” supplementare di cui disponeva il ministero di via XX settembre a valle del buy back completato dalla stessa Eni. Questo perché le azioni proprie oggetto del riacquisto sono di norma cancellate, così da “concentrare” i futuri dividendi.

Il Tesoro ha quindi ridotto dal 33,3% al 30,5% il suo peso diretto e indiretto, cioè tramite Cassa Depositi e Prestiti, nel libro soci di Eni. Una soglia comunque di tutta tranquillità sia considerando il Golden Power, cioè i poteri speciali con cui il governo tutela gli asset strategici, sia  la legge sull’Opa.

Qualsiasi scalatore dovesse superare il 25% di Eni incorrerebbero infatti nell’obbligo di dover lanciare una costosissima offerta pubblica di acquisto: Eni capitalizza 48,5 miliardi. Come sempre accade il Tesoro si è poi impegnato a tenere le bocce ferme sul big dell’energia per 90 giorni (è il cosiddetto periodo di “lock up”).

Più che le tecnicalità finanziarie, quello che qui conta è tuttavia che lo Stato incassa 1,4 miliardi dalla cessione della quota di Eni. Denaro prezioso, insieme alle altre dismissioni sul tavolo come Poste e Monte Paschi, per cercare di ridurre la slavina dei conti pubblici provocata dal Superbonus di Giuseppe Conte. A cui si debbono anche i soldi gettati nel cestino con il Reddito di Cittadinanza senza creare nemmeno un posto di lavoro.

Per la precisione la progressiva discesa da Mps, prevista dagli accordi presi in sede europea ai tempi del salatissimo salvataggio di Stato, ha finora fruttato complessivamente 1,6 miliardi. Ora gli occhi sono puntati su Poste Italiane, di cui potrebbe in prospettiva essere ceduto fino al 29% per un incasso potenziale di 4,7 miliardi. Infine le Ferrovie dello Stato, o una parte di essa, potrebbero correre verso la stazione di Piazza Affari.

Il resto della provvista per sostenere i conti pubblici è affidato ai titoli di Stato, con la  mossa del Btp Valore per mettere il debito italiano nelle tasche delle famiglie italiane.

L’obiettivo è proteggerlo da eventuali attacchi speculativi. A offrire l’innesco potrebbero essere sia il Patto di Stabilità Ue sia la già annunciata procedura di infrazione verso il nostro Paese da parte dei falchi del rigore di Bruxelles.

Come dimostra il Documento di Economia e Finanza non sarà facile trovare le coperture per rendere strutturali gli sgravi fiscali introdotti ai redditi bassi e ancora meno finanziare l’attesa riforma complessiva dell’Erario. Il giudizio delle agenzie di rating è infatti benevolo, perché Giorgetti tiene alta la guardia.

Tagliare la spesa pubblica senza inventarsi nuovi imposte, o meglio ridurre le tasse a tutti i contribuenti è però necessario. Non solo per quello che dimostra sul gettito la curva di Laffer ma anche perché è l’unico modo per rilanciare i consumi e quindi la produzione e gli investimenti delle imprese made in Italy.

In caso contrario  il Pil resterà schiavo di un diabolico gioco delle tre tavolette con deficit e debito pubblico che a lungo termine rischia di risultare fatale dal punto di vista della competitività del Paese sullo scacchiere internazionale.

Per approfondire leggi anche: Una delle maggiori uscite per lo Stato è la spesa pensionistica.

Soprattutto se non andasse in porto il piano del governo Meloni per ritornare al nucleare e se non riprenderà quella curva della natalità che presto ci ridurrà a una Stato di pensionati più che a una Repubblica fondata sul lavoro.

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