Finanza

Investire non è scommettere: il potere della diversificazione

In questi ultimi giorni è prepotentemente tornata alla ribalta la volatilità, caratteristica imprescindibile dei mercati finanziari ma che, quando arriva, porta sempre una tensione emotiva a cui alla fine non si è mai pronti.

Persistenza dell’inflazione, rischio rallentamento economico in Cina (con la crisi Evergrande ancora sul tavolo), la variante Omicron arrivata dal Sudafrica con il rischio di nuovi lockdown soprattutto in Europa, insomma ce n’era abbastanza per far tirare il freno a mano ai mercati, già saliti parecchio da inizio anno.

E con il ritorno della volatilità si ripropongono temi già affrontati anche su queste pagine: il primo ricorda che proprio in questi giorni, il 2 Dicembre del 2001, falliva Enron, gigante dell’energia negli Usa che operava nel trading sulle differenze di prezzo tra domanda e offerta nel settore dell’energia diventando (grazie anche ad appoggi politici) una potenza del settore del gas naturale.

Enron comprava e fondava società in tutto il mondo (molte in paradisi fiscali) e  i suoi manager guadagnavano cifre superlative grazie ai lauti bonus erogati dalla compagnia; il prezzo delle azioni passò da 20 a 90 dollari per azione dal 1997 al 2000.

Peccato che fosse tutto falso: manipolazioni di mercato, attività contabili e utili gonfiati artificialmente, debiti e perdite nascosti in società off-shore. All’inizio dell’estate del 2001 l’euforia iniziò a calare ma gli investitori vennero rassicurati: le azioni avrebbero presto raggiunto i 100 dollari.

Il 14 agosto il Chief Operating Officer Jeff Skilling annunciò le dimissioni, il prezzo scese sotto i 40 dollari; il 16 ottobre Enron dichiarò una perdita di 618 milioni di dollari e svalutò il capitale; l’8 novembre la società corresse i profitti dichiarati l’anno precedente.

Infine, il 2 dicembre 2001, la Enron portò i libri in tribunale: i debiti della società, dichiarati in 13 miliardi, erano in realtà di 38 miliardi di dollari; alla fine del 2001 le azioni Enron valevano 30 centesimi…

L’altro articolo parlava della General Electric (altra società di cui ho parlato in passato): per oltre un secolo emblema della potenza industriale americana, non c’era prodotto che non producesse: lampadine elettriche, elettrodomestici (ricordate i suoi frigoriferi?), motori per aerei, i primi televisori, le locomotive, le turbine delle centrali elettriche e quelle navali, gli strumenti diagnostici; la rappresentante per eccellenza della cosiddetta Old Economy.

Per oltre 100 anni società di spicco del Dow Jones, prima società al mondo per capitalizzazione dal 1995 al 2005, all’inizio del secolo le sue azioni arrivarono a valere 480 dollari; poi la caduta in disgrazia, le azioni scendono inesorabilmente e oggi valgono circa 96 dollari, e l’onta, il titolo esce dal Dow Jones e le sue obbligazioni vengono considerate a rischio insolvenza (le famose junk bonds).

E queste vicende non riguardano soltanto questi due titoli ovviamente, ma tantissimi altri; nell’articolo viene riportato che ci sono 56 titoli dell’S&P 500 che sono sotto i massimi di oltre il 50% e 18 di ben il 70% e oltre.

Due terzi dei titoli che compongono l’indice Russel 3000 hanno sottoperformato l’indice stesso, più del 40% delle azioni hanno avuto – dal 1980 a oggi – perdite superiori al 70% che non hanno più recuperato. Quindi hai più probabilità di scegliere un singolo titolo perdente che uno vincente. Eppure ciò non ha impedito ai listini di realizzare una performance stellare in questi anni (circa 220% l’S&P 500 dal 2000 a oggi).

La morale? Come diceva il leggendario Jack Bogle “non cercare di trovare l’ago nel pagliaio, compra l’intero pagliaio”.

Tempo fa scrissi un post sul famoso gioco di società “Monopoli”, di cui ero un appassionato giocatore quando ero bambino (forse proprio la mia passione per la compravendita di società mi ha portato poi ad occuparmi di investimenti). Riflettendo sul gioco (e i giochi danno spesso dei grandi insegnamenti), alla fine mi sono chiesto “chi è che vince a Monopoli?”.

Vince chi diversifica le proprie risorse in modo efficace, chi ha pazienza e disciplina e chi non si fa prendere né dall’euforia né dallo sconforto. Acquistare indistintamente tutte le proprietà sulle quali capita di fermarsi sperperando il proprio capitale piuttosto che costruire case e alberghi tutte insieme non è una strategia vincente.

Né si vince solo possedendo Viale dei Giardini o Parco della Vittoria, bisogna essere presenti in diverse parti del tabellone per avere una corretta diversificazione, quindi non sottovalutiamo Piazza Giulio Cesare, Largo Colombo o Bastioni Gran Sasso o le mitiche Stazioni, e  non dimentichiamo che gli Imprevisti possono sempre capitare…

Massimiliano Maccari, 5 dicembre 2021