La decisione di Stellantis di ribattezzare la sua nuova Alfa Romeo, rottamando il rombante nome “Milano“, che molto sapeva di capitale del design, con il più modesto “Junior“, non è certo frequente nel mondo dell’industria. Perché tutto è nato da una pressione politica, o meglio dal braccio di ferro in corso tra il gruppo franco-italiano e il governo Meloni per riportare la produzione nazionale di veicoli a quota un milione.
Abbiamo chiesto agli esperti del diritto, perché chiamare “Milano” una macchina che sarà prodotta in Polonia poteva essere attaccabile dal punto di vista della norma sull’Italian sounding.
Si tratta della norma che tutela il made in Italy rispetto ai prodotti di importazione. Ne sono un esempio i formaggi stranieri o vini esteri che spesso ricalcano le denominazioni geografiche protette del nostro territorio e che Coldiretti chiede di fermare alla frontiera.
Prima di snocciolare in punta di diritto, quello che potrebbe apparire una sorta di “Parmesan a quattro ruote”, occorre però una riflessione di carattere finanziario e industriale. Va detto con chiarezza che l’aver indotto l’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares a cambiare nome alla Alfa Milano rappresenta una vittoria a metà.
Perché, a parte la pur comprensibile soddisfazione politica per l’epilogo e forse un certo senso di rivalsa davanti al denaro che la casa automobilistica aveva stanziato per una campagna di comunicazione che ora è probabilmente da rivedere, lo stato di crisi in cui versano gli impianti italiani non cambia.
Anzi per Mirafiori siamo ormai sull’orlo dell’agonia, considerando l’ulteriore cassa integrazione decisa ieri sulle linee della Fiat 500 elettrica e delle Maserati sportive dal 22 aprile al 6 di maggio. Insomma, a ben guardare, c’è molto poco da gioire.
Piuttosto, occorre che il governo si rimbocchi le maniche per rendere questo Paese più attraente, anche per un potenziale produttore straniero. Vedremo quali risultati otterrà il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, dai contatti in corso con alcuni gruppi asiatici.
Ma ora lasciamo la parola agli avvocati per andare a fondo di quei codici e sfumature del diritto, che hanno indotto Stellantis a cancellare ogni dubbio sul fatto che il suo Suv non fosse realizzato nel Belpaese ma migliaia di chilometri a nord delle Alpi, nella polacca Tychy.
Il caso Alfa “ha riacceso l’attenzione circa la necessità di promuovere e proteggere il Made in Italy, oltre che sulla disciplina volta a contrastare il fenomeno del cosiddetto Italian Sounding”, commenta Marco Annoni. Tale fenomeno, prosegue l’Head of Intellectual Property di DWF Italy, è inteso come quella pratica scorretta volta a indurre il consumatore “in inganno circa specifiche qualità o caratteristiche di prodotti, alimentari e non, per l’effetto dell’uso di nomi o segni che in qualche modo alludono ad un legame con il Bel Paese, idoneo a traferire agli stessi particolari valori qualitativi correlati a detto territorio, in linea con quanto previsto dal testo della recente Legge del 27 dicembre 2023 numero 206 sulla tutela del Made in Italy”.
In questo senso, rimarca ancora Annoni, la soluzione di contraddistinguere un’autovettura prodotta interamente all’estero e venduta ad un pubblico italiano con un marchio che richiama un forte legame con l’Italia ovvero sue specifiche aree territoriali idonee a trasferire pregi o qualità a detta vettura, come appunto accade con la parola “Milano”, appare assumere i connotati di un uso illecito del segno. Non solo e non tanto per il suo possibile contrasto con le previsioni della Legge sul Made in Italy, ma anche per i possibili profili decettivi connessi ad un marchio i cui contenuti potrebbero astrattamente indurre in inganno il pubblico sulla natura o qualità del prodotto dallo stesso contraddistinto.
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Gli esperti di proprietà intellettuale di Cosmo Legal Group rilevano inoltre: secondo le disposizioni della Legge 350/2003 o del Codice della Proprietà industriale sul cosiddetto italian sounding, considerato che, sulla nuova vettura Alfa Romeo “Milano” sembra che sarebbero state apposte indicazioni chiare ed evidenti volte a informare il consumatore circa il suo paese di produzione, nel caso di specie la Polonia, le norme richiamate non sembrerebbero trovare applicazione.
Rimarrebbero invece applicabili – concludono – le disposizioni del Codice della Proprietà industriale, che precludono la registrazione e l’uso di nomi di enti territoriali italiani, a prescindere da qualsiasi valenza descrittiva, senza il consenso dell’ente in questione.