Il governo Meloni deve continuare a mantenere il rigore nei conti pubblici, ma è venuto il momento di aumentare i salari per rimediare ai danni che l’inflazione ha lasciato nelle tasche delle famiglie italiane. Sono questi i due messaggi chiave lanciati ieri dal governatore di Bankitalia Fabio Panetta al suo debutto dal palco del Forex.
La congiuntura globale continua a essere “fiacca” e l’atteso taglio dei tassi da parte della Bce “si sta rapidamente avvicinando”, ha assicurato il banchiere centrale a Genova per la trentesima kermesse annuale degli operatori dei mercati finanziari. Dove ha invitato a porre sui due piatti della bilancia “benefici e controindicazioni” di un taglio tempestivo al costo del denaro rispetto all’alternativa di un “allentamento tardivo e aggressivo” che potrebbe accrescere l’instabilità delle Borse.
Nel ovattato linguaggio dei banchieri centrali equivale a un chiaro messaggio ai falchi del rigore tedeschi e ai Paesi cosiddetti “frugali” che stanno cercando da tempo di condizionare ancora Christine Lagarde, così da ritardare la discesa dei tassi dall’attuale massimo storico del 4,5 percento. Falchi di cui Panetta conosce bene gli umori essendo a stato a lungo nel direttivo della Bce, prima di trasferirsi in via Nazionale.
La principale novità, tuttavia, è un’altra e si riferisce appunto alla necessità di ristorare gli stipendi oggi ancora profondamente martoriati dalla corsa dei prezzi, avviando una seria riflessione sul tabù della “moderazione salariale” .
La probabilità che il rafforzamento degli stipendi si traduca in una rincorsa salari-prezzi è infatti “esigua”, ha scandito il banchiere centrale. Anzi il recupero del potere d’acquisto è da ritenersi “fisiologico”, ha proseguito Panetta anche allo scopo di sostenere i consumi e la ripresa del Pil.
Insomma, Panetta ha smontato, sulla base dei modelli economici di Bankitalia, l’idea che mettere più soldi nelle tasche delle famiglie equivalga a gonfiare l’inflazione. E con questo ha segnato una netta cesura rispetto al suo predecessore a Palazzo Koch, Ignazio Visco, che invece aveva più volte sostenuto l’inverso.
Fissato il nuovo principio, resta da capire come agire per metterlo in pratica. Visto che, secondo alcune stime, i salari reali degli italiani continueranno a viaggiare in perdita rispetto all’inflazione almeno fino al 2026: solo lo scorso anno i prezzi sono aumentati in media del 5,6% e dell’8% nel 2022.
Tanto che sono sempre più i consumatori costretti a preferire e a mettere in tavola i più economici prodotti no logo dei supermercati. Di certo, dopo il record sul fronte dell’occupazione raggiunto nel 2023 grazie ai 456mila nuovi posti di lavoro in gran parte a tempo indeterminato, bisognerà mettere mano ai tanti contratti di categoria ancora scaduti.
Il Pubblico Impiego lo ha già fatto e lo stesso i bancari, che hanno strappato aumenti da record grazie alla forza dei sindacati di categoria mentre la Cgil di Landini andava in piazza. Ora è il turno delle imprese del made in Italy rinnovare i contratti di lavoro nazionali. Al centro non potrà che esserci un aumento della produttività. Fattore indispensabile quest’ultimo per poter aumentare gli stipendi.
Auspicabili inoltre una maggiore flessibilità negli integrativi aziendali e molta più attenzione a premiare il merito. Il tutto in attesa di una vera riforma fiscale che lasci più soldi nelle tasche della classe media ora falcidiata da un peso impositivo che non ha pari.
Per approfondire leggi anche: la trappola nascosta nella rimodulazione dell’Irpef e del cuneo fiscale per i redditi fino a 35mila euro introdotta dall’ultima Legge di Bilancio. Qui, invece, ecco i prodotti su cui prendiamo la stangata per il salasso dell’inflazione.
Così da poter davvero spingere i consumi. Con un benefico effetto di trascinamento sia sulla produzione sia sugli utili delle aziende. Quindi in definitiva a tutto beneficio del Pil e del suo rapporto con il deficit e il debito pubblico nell’ambito del nuovo Patto di Stabilità appena licenziato dall’Europarlamento.