Inflazione

Crisi del Mar Rosso, ecco i prodotti su cui rischiamo la stangata

Sono importati dalla Cina la gran parte di cellulari, tv ed elettrodomestici che utilizziamo. Coinvolti anche gli articoli di pellame. L’incognita benzina e bollette

crisi Suez

Cellulari, tablet, televisori, borsette e cinture, oltre a grandi e piccoli elettrodomestici, come forni, lavatrici, asciugacapelli o frullatori. Sono sono alcuni dei prodotti di largo consumo che rischiano di restare coinvolti nella crisi del Mar Rosso, innescata dagli attacchi dei ribelli Houthi alle navi in transito nel canale di Suez.

Lo spiega chiaramente l’ultimo documento dell’Ufficio studi di Confindustria, il cui allarme sul possibile stallo delle forniture rende ancora più assordante quello già lanciato da Bankitalia e dagli analisti dell’americana Sea-Intelligence, secondo cui il danno sugli approvvigionamenti saranno peggiori di quelli dei lockdown del periodo Covid.

Vediamo insieme perché. Oltre la metà dell’import extra-Ue di beni elettronici e apparecchi elettrici proviene dalla Cina. Appunto navi container strapiene di tv, tablet, cellulari, piccoli e grandi elettrodomestici che prima transitavano dal canale di Suez alla volta dei porti del Vecchio continente ma che ora sono costrette ad allungare la rotta verso il capo di Buona Speranza.

Come minimo, quindi, dobbiamo attenderci un ritardo nei tempi di consegne. Qualche avvisaglia, peraltro, già emerge tra le offerte dei big dell’e-commerce. Sempre sotto la Grande Muraglia vengono inoltre realizzati quasi un terzo dei prodotti in pellame che indossiamo.

Senza contare che prendono la via del mare, in direzione contraria verso gli Stati asiatici molti prodotti tipici del made in Italy: moda, lusso e prodotti alimentari, che ora subiranno un contraccolpo sul fronte delle esportazioni.

Gli italiani stanno già cercando di contenere lo scontrino preferendo gli hard discount e i prodotti no logo. Come detto, la minaccia degli Houthi è però molto più ampia, anche per le sorti dell’inflazione globale, che non il rincaro della frutta o della verdura di importazione dall’Africa. 

In primo luogo c’è, infatti, l’incognita del petrolio. Le navi cisterna salpate dal Kuwait, dal Qatar, dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Irak e in parte anche dall’Arabia Saudita utilizzavano il canale di Suez per raggiungere l’Europa. Ora non lo fanno più.

Le quotazioni di metano e greggio finora non si sono infiammate, ma restano su un livello di guardia: a gennaio rispettivamente 31 euro al mwh e 78 dollari al barile. Insomma, complice anche il conflitto a Gaza, la stangata dal benzinaio e nelle bollette di casa appare dietro l’angolo.

Sarebbe, quindi, un errore di valutazione ritenere che la crisi esplosa nello Yemen sia un problema lontano. Anche senza scomodare la “Teoria del caos”, per cui il battito d’ali di una farfalla in un punto del Pianeta può influenzare il meteo anche di latitudini e longitudini lontanissime, basta verificare l’etichetta di tanti prodotti che ci circondano.

Molto spesso i nostri occhi leggeranno: “made in China“. Il Dragone è diventato, infatti, la fabbrica del mondo nel modello globalizzato che ha dominato fino allo scoppio della guerra in Ucraina. Perché assicurava alle multinazionali di ottimizzare i costi di produzione.

Qualcosa poi è cambiato: l’Unione Europea sta lavorando per riportare entro i suoi confini alcune industrie e settori strategici, come i microchip. La catena degli approvvigionamenti è tuttavia delicatissima, così come gli equilibri della logistica delle merci.

Le rotte marine, conferma il Centro Studi di Confindustria, sono cruciali per i commerci. Basti pensare che si realizza via mare il 90% dei volumi degli scambi del Pianeta. Questa percentuale scende a poco meno della metà nel caso dell’Italia (54%), di cui però il 40% transita proprio dal canale di Suez (contro il 12% di quello globale).

Le prospettive per il 2024 non sono per nulla rassicuranti, scrivono ancora gli industriali, ricordando come i missili lanciati dal gruppo yemenita Houthi alle navi all’ingresso del Mar Rosso abbiano già convinto le grandi compagnie di navigazione a stare alla larga dal canale di Suez.

Da MSC a Maersk, la quasi totalità fa rotta ormai per il Capo di Buona Speranza, così come le signore del greggio del calibro di British Petroleum e di Frontline. Con notevole allungamento dei tempi di navigazione: occorrono circa dieci giorni in più.

Già a metà del mese in corso il traffico di navi nel mar Rosso si era più che dimezzato (-55% rispetto al quarto trimestre del 2023 in base ai dati Redsea Kiel institute). In parallelo, trasportare un container dall’Asia all’Europa costa il doppio: +92% secondo il Shanghai Containerized Freight index.

Davvero non il massimo per le speranze riposte dal governo nel nostro export, che era già in frenata nel 2023 (-1,4% nei primi undici mesi a prezzi  costanti), in un quadro di profonda debolezza della domanda mondiale di beni (-2,2% gli scambi nei primi dieci mesi) e che mandava qualche segno di recupero nell’ultima parte del 2023 (+1,5%).

Per approfondire leggi anche: Il Qatar ordina alle sue petroliere di evitare Suez, ma esplodono i costi. Qui, invece, l’impatto che la crisi in corso potrebbe avere sulle decisioni di Fed e Bce, fino a indurle a rimandare ulteriormente il taglio dei tassi di interesse ora in calendario a inizio estate.

Questo prima dell’acuirsi della crisi dello Yemen. Va da sè che più la situazione nel Mar Rosso resterà esplosiva più ci saranno danni al trasporto marittimo italiano e quindi alla crescita del Pil. Finendo così con il complicare anche il rapporto con le agenzie di rating e le sorti della Borsa.