C’è chi è convinto di poter leggere il futuro nei fondi dell’espresso e su internet non mancano i relativi manuali. Non serve però scomodare il mondo antico con l’arte aruspicina e gli àuguri che coglievano presagi dalle viscere degli animali o dal volo degli uccelli, per capire perché gli italiani hanno dovuto sborsare 720 milioni in più per concedersi la pausa caffè rispetto a due anni fa. Va premesso che nel 2021 le limitazioni sanitarie vigenti per contenere il Covid avevano smorzato per alcuni mesi il piacere di cappuccino e brioche, ma a provocare la stangata dell’espresso non è stata solo la crescita dei consumi innescatasi dopo che l’Italia ha deposto la mascherina: 6 miliardi le tazzine di caffè sorseggiate al bar solo nell’ultimo anno. A spingere i prezzi, ammette la stessa Assoutenti che ha elaborato l’indagine passando in rassegna gli esercizi commerciali delle principali città italiane, è stato prima il caro-bollette, poi la fiammata delle materie prime dovuta all’invasione russa in Ucraina.
L’associazione lamenta il danno subito dai 5,5 milioni di italiani che non riescono a rinunciare alla colazione al bar. Basta però aguzzare lo sguardo fuori dalla tazzina per scovare problemi ancora maggiori. Quelli di un’Italia che, malgrado l’impegno profuso prima dal governo di Mario Draghi e ora da quello di Giorgia Meloni per emanciparsi dalle forniture di Mosca, resta fragile dal punto di vista dell’autosufficienza energetica. Colpa certamente della penuria di materie prime che contraddistingue un territorio “giovane” come l’Italia dal punto di vista geologico ma anche, va detto con chiarezza, della pervicacia con cui almeno una parte della sinistra continua a dire “no” all’atomo, anche al nucleare di ultima generazione, considerato molto sicuro, basato su piccoli reattori e a emissioni zero.
Appreso così dall’indagine che Bolzano (1,34 euro lo scontrino medio) è la città dove è più costoso gustare un caffè al bancone e che Messina è quella più a buon mercato (0,95 euro), a conferma che anche qui vale la dicotomia dei prezzi tra il ricco Nord e un Sud costretto ad arrangiarsi, conviene riflettere sulla puntualizzazione della Fipe: la tazzina del caffè, si difende la costola di Confcommercio che riunisce i pubblici esercizi, è aumentata in media del 4,6% contro un’inflazione quasi doppia e che ad aprile veleggiava ancora al 7,6 per cento. In buona sostanza, i baristi hanno scaricato a terra, quindi sullo scontrino consegnato alla cassa all’avventore di turno, solo una parte dei rincari subiti tra elettricità, locazioni e acquisto del caffè in grani dai propri fornitori. Questo naturalmente non perché i commercianti siano divenuti improvvisamente dei benefattori ma perché, da fini conoscitori degli umori del mercato, sanno che c’è un limite oltre il quale alzare i prezzi significa soffocare i consumi.
Così come su larga scala l’ostinazione con cui la Bce di Christine Lagarde continua ad alzare i tassi di interessi sta stringendo il cappio attorno al Pil, con conseguente taglio delle stime. I falchi del rigore Ue vorrebbero mettere gli artigli sull’inflazione, ma hanno peggiorato il quadro. Perchè una volta aggiunti il rincaro di mutui casa e leasing aziendali a una benzina a quota 2 euro, per numerose famiglie è diventato difficile riempire il “carrello della spesa” e per le imprese troppo risicati i margini di guadagno per avere voglia di investire davvero. Tanto che, come ha rilevato l’Istat, la produzione industriale italiana è tornata in negativo a luglio e il mercato del lavoro ha tradito sinistri cigolii con il primo calo degli occupati dopo mesi di espansione.
Andare al bar e ordinare un buon caffè resta un buon modo per iniziare piacevolmente la giornata, ma non basta per divinare un roseo futuro. Il Paese e il Pil ripartiranno solo con una riforma liberale dello Stato e riscrivendo il Patto di Stabilità in sede Ue ponendo il piede sull’acceleratore della crescita.