Facebook, WhatsApp, Instagram e Messenger sono i continenti del mondo Meta. Un mondo a cui gli utenti accedono gratuitamente cedendo in modo altrettanto gratuito i propri dati personali che però diventano oro per le piattaforme di create o acquistate da Mark Zuckerberg. Perché queste informazioni, una volta profilate dagli algoritmi, permettono proprio ai sistemi commerciali dei social network di fare profitti.
Parte da questo assioma la Procura di Milano per chiedere alla casamadre Meta la bellezza di 877 milioni di euro. Tutta Iva evasa, secondo i magistrati, che ipotizzano una base imponibile di 3,9 miliardi nel solo periodo oggetto dell’indagine, cioè tra il 2015 e il 2021.
Per amor di precisione la Procura milanese, supportata dalla Guardia di Finanza, ha contestato la omessa dichiarazione a Meta Platforms Ireland Limited, la divisione europea del big statunitense creato da Zuckerberg. Mettendo appunto nel mirino il mancato versamento dell’imposta sul valore aggiunto relativo ai proventi che si stima il social network abbia avuto dallo sfruttamento dei big data.
Una svolta anche nell’approccio, perchè è la prima volta che un tribunale attribuisce ufficialmente un peso relativo al fisco alle informazioni personali raccolte dai social. Le indagini su Meta, che si sono appena concluse, promettono quindi di riverberarsi sui casi analoghi, andando a intaccare le certezze delle altre big tech.
La richiesta della Procura, perché al momento solo di questo di tratta, si inserisce inoltre nel braccio di ferro che prosegue ormai da un ventennio tra l’Unione europea e aziende di Wall Street che ormai appaiono spesso più potenti degli stessi Stati sovrani.
Le cronache finanziarie ci ricordano, che il primo assaggio fu la sanzione comminata a Microsoft per abuso di posizione dominante dall’allora commissario alla concorrenza Mario Monti. A questa ne seguirono molte altre per Google e gli altri big de web, fino alle più recenti che hanno interessato la stessa Meta o Apple.
Così come si sono rivelati parimenti una costante gli innumerevoli e intricati ricorsi. A dimostrazione di quanto sia difficile pensare di regolamentare il nuovo che avanza a passi da gigante. Lo stesso sta accadendo con l’intelligenza artificiale.
Un business dove l’Europa non ha alcun gruppo comparabile a Open Ai-ChatGpt o ai suoi equiparabili cinesi, ma si compiace di aver approvato il primo regolamento che dovrebbe incanalarne l’uso peraltro in un settore ancora in gran parte inesplorato.
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Una pia illusione quella dei burocrati europei. Anzi un danno, perché mentre loro si arrovellano per anni a legiferare a Bruxelles, convinti di poter di imbrigliare quello che altri hanno inventato gli imprenditori della Silicon Valley americana e degli altri poli di innovazione nel mondo pensano e realizzano prodotti e strumenti ancora più innovativi. Surclassando i sistemi imprenditoriali della zona euro, e imponendo a tutti i loro modelli culturali.