Una volta esistevano le ricerche di mercato senza il supporto totale della tecnologia,soprattutto di internet e dei social networks attraverso i quali con un solo click si raggiungono miliardi di consumatori contemporaneamente.
Praticamente fare impresa fino agli anni ’90 era molto arduo e la componente di rischio elevata, lanciare un nuovo brand o un prodotto richiedeva molto tempo ed ingenti capitali pre-commercializzazione destinati appunto alla ricerca.
Se tutto ciò fino all’avvento dell’era digitale era principalmente appannaggio di grandi multinazionali, perché disponevano delle cifre necessarie non solo per pagare i migliori analisti ma anche per sofisticati software e teams destinati a prevedere i gusti dei consumatori, oggi sondare il mercato in merito a ciò che le masse richiedono (o sono spinte a richiedere) è molto più semplice e comporta costi abbordabili anche per start up con esigue risorse iniziali a disposizione.
Un ruolo fondamentale in questo settore lo hanno assunto i social networks che non sono soltanto i due/tre big che tutti conosciamo; esistono una miriade di piattaforme social cosiddette minori (termine improprio al solo fine di confronto) abbastanza diffuse da avere accesso ad usi e costumi di milioni di utenti che rappresentano il vero oro digitale allo stato grezzo che ogni azienda trasforma in dati di output prima di rischiare capitali per il lancio di nuovi prodotti o servizi.
Ed è a questo punto che entra in gioco il neuromarketing, scienza spinta proprio dalla globalizzazione digitale che consente di raggiungere consumatori in tutto il mondo in pochi secondi.
A differenza del marketing tradizionale, attraverso cui si ricavano dati previsionali grezzi, il neuromarketing tiene conto di fattori molto più raffinati quali le emozioni ed i meccanismi che si attivano nella mente di ognuno di noi alla visione di un’immagine, un colore o quando il nostro olfatto avverte un odore ed in genere tutto ciò che è umanamente sensoriale o complementare della vita di ogni individuo.
I consumi sono generati principalmente da necessità ma anche da piacere, smania di possedere, vanità, competizione ed altri fattori che attivano il processo decisionale nella nostra mente affinché la nostra scelta cada su un prodotto piuttosto che un altro nella medesima categoria, ovvero la scelta del brand.
Esistono aziende ben note che sono diventate status symbol i cui prodotti, sebbene costosi, raggiungono ogni anno record di vendite; altre invece fanno leva sull’esclusività indirizzando la produzione a super ricchi, altre ancora basano la loro strategia sulle necessità di ogni giorno evidenziando la semplicità e così via.
Ogni strategia che abbraccia la sfera dei sensi viene studiata meticolosamente e come primo step testata sui citati social networks, per poi passare a campagne massive (per chi se lo può permettere) su stampa, cartelloni o maxi schermi nelle città e tv o stadi.
E nella maggior parte dei casi le ricerche portate avanti con disciplina e competenza generano sensibili aumenti nelle vendite, anche magari di prodotti sconfitti in partenza.
In un mondo in cui (purtroppo) molto spesso l’immagine conta più della qualità, anche per una questione di costi, sono possibili veri e propri miracoli degli analisti che riescono a generare profitti record per aziende i cui prodotti sono di qualità medio-bassa.
Molto importante nell’ambito di questa scienza è soprattutto individuare il prezzo psicologicamente giusto per ogni prodotto, che è cosa ben differente dal prezzo oggettivamente giusto.
Sappiamo tutti infatti che un individuo che desidera un prodotto non alla sua portata oggi non ha problemi grazie alla possibilità degli acquisti rateali che da un lato sono una manna per banche ed aziende e dall’altro una schiavitù ed una cattiva abitudine per i consumatori.
Ma naturalmente ciò che conta è il profitto, ed è anche ciò che fa girare il mondo.
A tal proposito esiste una storia reale (di qualche decennio addietro) di un’azienda USA di dentifrici in crisi; un semplice cittadino chiese un incontro con il CEO della società affermando di avere la soluzione al problema della crisi delle vendite e di conseguenza di riportare in attivo il bilancio.
Fu ricevuto con un po’ di scetticismo ma la usa idea, semplicissima, effettivamente ridiede slancio alle vendite e si basava proprio su un meccanismo psicologico involontario.
In pratica lui sosteneva che una persona nel lavare i denti il primo gesto compie è quello di aprire il tubetto di dentifricio e passarlo sullo spazzolino finché il dentifricio non lo copra per l’intera lunghezza, di conseguenza lui affermò che allargando il foro di uscita del dentifricio le abitudini dei consumatori non sarebbero mutate ed avrebbero continuato a coprire di dentifricio lo spazzolino per l’intera lunghezza …
Ergo la quantità di dentifricio consumata sarebbe stata maggiore senza “dare nell’occhio”.
Il CEO dell’azienda fu così entusiasta che decise di adottare tale soluzione, proponendo un contratto milionario all’ideatore, ed effettivamente le vendite s’impennarono vertiginosamente ridando ossigeno alla società.
Quanto appena esposto non è altro se non neuromarketing applicato senza saperlo ed in un epoca in cui questa scienza comportamentale non aveva ancora preso piede.
Oggi invece si pone attenzione ai minimi dettagli, addirittura vi sono test che includono il battito cardiaco e delle palpebre per poter quantificare le emozioni derivanti dalla vista di un prodotto o alla sola idea di poterlo possedere.
Il profitto passerà sempre di più attraverso corrette strategie e studi previsionali dei quali oggi non si può fare a meno perché ciò che principalmente è mutato sono le abitudini degli individui la cui vita si svolge principalmente online, emozioni e desideri inclusi.
Antonino Papa, 18 agosto 2022