L’ Adriatico è dal punto di vista dei traffici marittimi un mare morto, una sorta di lago con acque ferme e ben poche possibilità di arginare l’erosione in atto di merci e navi che abitualmente lo frequentano; la chiusura di Suez, perché tale ormai è, rende fortemente anti economica la risalita di questo mare che in tutto il Mediterraneo risulta essere il più scomodo e il più isolato. E su questa situazione incontestabile si innesca un paradosso: chi programma di investimenti pubblici e chi gestisce i finanziamenti per realizzare le nuove opere portuali si comporta esattamente come se nulla fosse accaduto e come se non esistesse un rischio di totale emarginazione del mare Adriatico dalle principali rotte marittime di trasporto delle merci.
La denuncia dell’ex Commissario Ue Paolo Costa
A sostenerlo è Paolo Costa che è stato Commissario europeo ai trasporti, Ministro italiano ai trasporti Sindaco di Venezia e Presidente della dell’allora Provveditorato al porto oggi ribattezzato Autorità di sistema. Secondo Costa, per tenere in vita, o quantomeno provarci, l’Adriatico sfruttando il fatto che i porti del nord adriatico, come Trieste e Venezia, sono i più vicini ai mercati europei (quelli dell’est) accreditati di maggiore crescita economica e produttiva potenziale, esisterebbe solo una scelta, quella che negli anni si è rivelata la più difficile: una gestione coordinata fra Italia, Croazia e Slovenia di tutti gli impianti portuali per la movimentazione dei container, in particolare quelli dotati di fondali e quindi di pescaggio adatto ad accogliere le grandi navi porta container dell’ultima generazione anche superiori a quelle da 24 000 teu di portata già in esercizio.
Le residue speranze in un’unica Authority
L’ipotesi rilanciata da Costa è quella di un’unica Autorità portuale, con competenze estese e multinazionali in grado di selezionare l’offerta di servizi, concentrare i finanziamenti su quei porti che hanno davvero una chance di successo. Questo era per altro il disegno all’origine- ricorda l’ex Commissario Ue- dell’intesa trilaterale siglata anni addietro da Italia, Croazia e Slovenia che si affacciano sull’Adriatico, intesa che è rimasta lettera morta lasciando spazio aperto allo sviluppo di infrastrutture portuali che trovano il comune denominatore solo e unicamente nell’ambizione di rubarsi reciprocamente traffici e farsi una concorrenza priva di motivazioni economiche.
Neanche la crisi di Suez, che è ormai qualcosa di più che uno stress test, riesce nei fatti a favorire un superamento dei localismi, e delle ambizioni dei singoli porti (e presidenti dei porti).
In questi giorni Venezia, attraverso la sua Autorità di sistema portuale, ha salutato con entusiasmo l’avvio del primo lotto a stralcio del valore di 189 milioni sui quali 438 complessivi di un terminal container da 90 ettari pensato – è stato sottolineato alla cerimonia di consegna a Fincantieri Infrastructure opere marittime – per ospitare grandi navi e movimentare un milione di container teu.
Il sogno svanito del porto offshore di Venezia
La verità è un po’ diversa: questo terminal su quale sono state effettuate per due anni e mezzo costosissime bonifiche per rimuovere le terre inquinate da prodotti chimici, era stato progettato dall’allora Provveditorato al porto, quando era presieduto da Costa, per ospitare la base onshore di un sistema complesso di movimentazione dei container che, proprio per evitare la strettoia di Marghera, prevedeva la realizzazione di un’isola dei container (il famoso Terminal offshore) da collegare a terra attraverso un sistema di navette shuttle (le ma vessel). Progetto che, al di là dei giudizi di merito contrastanti, avrebbe, quello si, consentito di ospitare le navi portacontainer più grandi attualmente in esercizio o costruzione.
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Uniche navi queste in grado di realizzare quelle economie di scala nel trasporto marittimo dei container, che potrebbero spingere (con la crisi di Suez) i maggiori operatori del trasporto marittimo a prendere in considerazione il mantenimento di collegamenti di linea con l’Alto Adriatico.
Fra Trieste e Capodistria la guerra fra i poveri
Ma il caso di Venezia non è isolato. Emblematico e resta quello dei porti di Trieste e di Capodistria che distano non più di 6 km l’uno dall’altro e che, sull’altare di una competizione senza logiche di mercato, si sono da sempre opposti alla costruzione di bretella ferroviaria, per l’appunto di 6 km, che interconnettesse i due terminal container consentendo ad entrambi di utilizzare il collegamento ferroviario più conveniente per raggiungere il mercato: dal porto di Capodistria quello in direzione Divacia e Lubiana e, dal porto di Trieste quello in diretta connessione con la linea di Tarvisio. Ed entrambi i terminal container in particolare quello in Slovenia non dispongono di fondali che consentano l’attracco delle grandi navi porta container dell’ultima generazione. Capodistria (con fondali a 13/14 metri) è fuori gara e ormai palesemente in crisi ma anche Trieste che per anni ha mascherato lo stallo nell’andamento dei traffici container sommando contenitori ai trailer trasportati in particolare dai traghetti in provenienza dalla Turchia, con il blocco di Suez inevitabilmente si trova ad affrontare un futuro tutt’altro che roseo.
Eppure il vento soffia ancora… Recitava una splendida canzone di Pierangelo Bertoli e soffia tanto per spingere praticamente tutti i porti adriatici a rifiutare la realtà amarissima di un declino reso inevitabile dal blocco di Suez e a continuare a buttare risorse su opere portuali che difficilmente otterranno il risultato di attirare verso l’alto Adriatico traffici e merci. A Ravenna si investono più di 500 milioni di euro per scavare i fondali del porto sì no a meno 13,5 metri ovvero una profondità del tutto inutile ad ospitare grandi navi porta container.
Fiumi di milioni per porti senza navi
Tutti e cinque i porti alto adriatici, in assenza di un qualsivoglia coordinamento, già complesso a livello nazionale, improponibile a livello internazionale, continuano a buttare soldi in quello che purtroppo (con la crisi di Suez) non è neppure un lago, bensì uno stagno dove – secondo tutte le analisi affidabili – potranno avventurarsi solo piccole navi porta container impegnate in servizi feeder con il porto greco del Pireo o forse con Gioia Tauro dove le navi grandi continueranno, anche se in scala ridotta, ad arrivare.
Con un sempre maggior numero di compagnie costrette a circumnavigare l’Africa e poi affacciarsi sul Mediterraneo attraverso Gibilterra, l’Adriatico assomiglia sempre di più a quell’ultimo strappo in salita, in cui i ciclisti scendono di sella perché non ce la fanno più.