Altro che Reddito di Cittadinanza a tutti come vorrebbe l’eresia della decrescita felice dei Cinquestelle. Non solo, chi è preparato e si impegna un lavoro in Italia lo trova ma le aziende se lo strappano di mano. Perlomeno nel nord del Paese.
La spia quanto sta accadendo si accesa sul pannello di controllo dell’Inps e registra l’aumento dei dipendenti a tempo indeterminato con meno di 60 anni che si sono dimessi volontariamente, perché hanno trovato uno stipendio più elevato o un comunque una migliore qualità della vita.
Nel 2022 hanno infatti sfondato quota un milione le persone che hanno cambiato azienda. Sono quasi il 30% in più rispetto al 2019, quindi alla situazione pre-pandemica. E’ facile ipotizzare che si tratti soprattutto di operai specializzati, tecnici o laureati nelle discipline Stem, cioè quelle scientifiche, tecnologiche o matematiche.
Per mettere un argine a questo problema, le pmi stanno:
- aumentando le retribuzioni;
- favorendo gli avanzamenti di carriera;
- stabilizzando i contratti a termine;
- concedendo orari più flessibili così da aiutare l’equilibrio lavoro-famiglia;
- erogando benefit e servizi di welfare aziendale.
Alcuni dipendenti hanno infatti lasciato il posto di lavoro per andare a guadagnare molto di più in Svizzera, come ci ha scritto questo imprenditore lombardo a Inchiostro & Affari, lo spazio che Nicolaporro.it ha pensato di dedicare alla voce di chi produce: inviateci anche voi le vostre lettere.
Come prevedibile è la Lombardia ad aprire la classifica del benessere sul lavoro, seguita da vicino Provincia Autonoma di Bolzano e Veneto, seguita da vicino da Provincia Autonoma di Trento, Piemonte e Valle d’Aosta.
Neanche a dirlo, pessimo il Mezzogiorno dove è maggiore la paura di perdere il posto di lavoro e dove erano concentrati i vecchi percettori del Reddito M5S, con una particolare concentrazione di domande in Campania e nel Napoletano. Fa eccezione la Sardegna.
La classifica, stilata dalla Cgia di Mestre tiene conto di:
- dipendenti con paga bassa;
- occupati sovraistruiti e con lavori a termine da almeno cinque anni;
- tassi di infortuni mortali e inabilità permanente; posti di lavoro non regolari;
- soddisfazione per il lavoro svolto, percezione di insicurezza dell’occupazione
- il fatto di aver dovuto accettare un part time.
Non solo, secondo l’Eurostat, gli italiani sono tra gli europei che passano più tempo in fabbrica o in ufficio, smart working compreso. Per la precisione il 9,6% è arrivato a una media settimanale di 49 ore di impiego contro le 36-40 ore standard previste dai contratti nazionali firmati da sindacati. Anche se va detto che in questa fotografia molto pesano gli autonomi.
La vera sfida per il nostro Paese resta inoltre quella di aumentare la produttività, perché solo così le aziende potranno essere più solide, investire con maggiore decisione e premiare le risorse migliori con aumenti di stipendio e bonus. Possibilmente detassati.
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Infine una curiosità nel vecchio continente la medaglia degli stakanovisti va alla Grecia (dove l’11,6% ha lavorato 49 ore alla settimana nel 2023), fanalino di coda la Bulgaria (0,4%). Le altre grandi economie europee si collocano a metà strada ma a notevole distanza tra loro: Francia (10,1%) e Germania (5,4%).