Lavoro

Il Nobel dell’Economia si piega alle quote rosa, ma smentisce le femministe

Vince l’americana Goldin con uno studio sul divario uomo-donna in busta paga. La discriminazione però non c’entra nulla

C’erano pochi dubbi che il Premio Nobel fosse un monumento di marmo al politically correct, a volte venato da quella tentazione di epater le bourgeois che qualche anno fa portò a incoronare Bob Dylan con l’alloro della Letteratura. Quest’anno l’Accademia reale delle Scienze, che da Stoccolma classifica e premia lo scibile umano, è tuttavia andata oltre l’effetto sorpresa con una scelta tutta in rosa che tanto piacerà al mainstream: ha assegnato il Nobel 2023 per l’Economia a una donna, l’americana Claudia Goldin, che ha dedicato la vita a studiare il lavoro femminile e in particolare a indagare perché le buste paga delle signore siano più leggere di quelle dei colleghi maschi.

A calcolare il divario di reddito è il cosiddetto “gender pay gap“, una delle grandi ossessioni delle mondo di oggi, sempre più attento a mettere bene in mostra sulla giacca la spilla dell’Esg. Si tratta dell’acronimo inglese di Environmental, Social e Governance: quindi ambiente, sociale e appunto parità di genere anche sul lavoro. I signori del Nobel hanno insomma compiuto una scelta che pare un manifesto delle nuove suffragette, sempre pronte a scendere in piazza in nome di Greta Thumberg, per combattere battaglie che spaziano dalla parità di genere, al cambiamento climatico. Le stesse talebane in rosa sovente intente a coniugare neologismi che stuprano l’italiano fino all’urlo della cacofonia, pur di non lasciare appannaggio dell’odiato genere maschile nemmeno un nome che indichi una professione. Qualche esempio che fa rabbrividire chi scrive: avvocata, ministra, architetta, arbitra.

Ma torniamo al Nobel per l’Economia. I giurati svedesi hanno motivato la scelta con il “grande contributo” che la studiosa ha portato alla ricerca sul gender gap. Claudia Goldin, dicono,  è andata più in profondità degli altri nell’analizzare il fenomeno, ha scavato per decenni tra i documenti dei polverosi archivi di mezza America fino a scoprire – come afferma lei stessa nel saggio “Career & Family Women’s century-long journey  into equity” – che a penalizzare le donne in fabbrica è quasi sempre il fatto di diventare mamme. In sostanza, fatti due conti in famiglia con la vil pecunia, spesso l’uomo (magari con qualche anno di più sulle spalle e molti capelli di meno in testa) si concentra sul lavoro mentre l’altra metà del cielo cerca un precario equilibrio tra una busta paga (sovente part time) e il pomeriggio da dedicare alla crescita dei figli. Fino a diventare una icona del multitasking, come tante donne di oggi che si dividono tra ufficio, bambini e lavastoviglie. Insomma nella coppia si sceglie l’assetto che permette di massimizzare le entrate nel bilancio di casa

Una scelta più che comprensibile perlomeno in Italia sopratutto ora che, malgrado l’iniziativa del governo per calmierare il caro prezzi, l’inflazione brucia sia nel carrello della spesa sia nella tazzina del caffè. Tutto questo, ai nostri occhi profani, non sembra però una grande novità. Già Hanna e Barbera, infatti, nel disegnare i Flinstone immaginavano Fred e Barney in cantiere con un hamburger di brontosauro per pranzo e le rispettive consorti Wilma a Betty intente a riassettare la caverna mentre accudiscono la prole. Non solo i libri di storia dicono che purtroppo le donne, guadagnano meno degli uomini fin dalla rivoluzione industriale, complice il fatto che per molto tempo hanno svolto mansioni più modeste, così come accadeva al lavoro minorile. La stessa Bruxelles stima che il gender gap sul reddito oscilli in media attorno al 12,7% nella zona dell’euro con punte del 20% in Estonia e in Germania (17,6%) mentre a sorpresa l’Italia, con un differenziale prossimo al 5%, si colloca tra i paesi più virtuosi insieme alla Polonia. Naturalmente è una statistica, viziata da lavori part time e interruzioni di carriera. Né pare dirompente scoprire che la signore sposate hanno perso peso sul lavoro già all’inizio dell’Ottocento, quando la rivoluzione industriale ha sconvolto i ritmi della società contadina, per poi però recuperare qualche posizione un secolo più tardi con l’imporsi del settore dei servizi. 

In ogni caso, oggi non è più lo studio la ragione del divario salariale, viste le numerose laureate nelle Università dell’Occidente. È un’altra la conclusione da Nobel che si trae dagli studi di miss Goldin: a dispetto di quanto credono molti soprattutto a sinistra, il gender gap nei redditi da lavoro non è dovuto a un complotto della società patriarcale o a una violenta discriminazione del capo ufficio ma, appunto a una scelta fatta in famiglia. Questo però è meglio non rivelarlo alle talebane del femminismo o la neo premio-Nobel per l’Economia, la terza donna nella storia, potrebbe non essere più vista come una eroina della battaglia rosa. La studiosa, come da prassi, incasserà oltre alla definitiva fama accademica un assegno da 11 milioni di corone svedesi che, al cambio corrente, equivalgono a un milione di dollari. Speriamo che le novelle suffragette non le chiedano un prestito a fondo perduto.

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