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Porti ai privati? Difficile oggi fare cassa

Fra norme contradditorie e concessioni demaniali in atto, l’idea sfiora l’utopia

© AysglAlp tramite Canva.com

Concessioni demaniali in essere, strutture pubbliche sovradimensionate, un coacervo di norme non contenute solo nel Codice della navigazione, ma presenti trasversalmente in più leggi; e a corollario di tutto una riforma del settore che è slittata in silenzio sino a scomparire all’orizzonte insieme con il nuovo Regolamento delle concessioni.

Ed è in questo scenario che dovrebbe nascere frettolosamente un progetto di privatizzazione dei porti italiani che – secondo voci insistenti – potrebbe trovare posto all’interno della legge finanziaria di prossima stesura.

Talora i miracoli si manifestano all’improvviso, ma conoscendo il comparto portuale italiano, caratterizzato ormai da incrostazioni organizzative decennali, dalla presenza di soggetti, oggi certo meno potenti, ma comunque fortemente sindacalizzati e politicizzati quali sono le Compagnie portuali, senza parlare dell’ormai stabile radicamento di grandi gruppi internazionali che hanno investito in terminal e banchine sulla base delle norme esistenti per le concessioni doganali…ebbene in uno scenario di questo tipo per il miracolo della privatizzazione dovrebbero essere scomodati Santi e profeti di prima fascia.

L’idea della privatizzazione dei  porti in Italia, idea circolata in queste ore con crescente insistenza, non entra in rotta di collisione con tutte le normative vigenti che richiederebbero un iter legislativo di modifica, ma presuppone anche un cambio in corsa nei rapporti con gli operatori privati che oggi gestiscono sulla base di concessioni di lunga durata tutti i principali terminal del Paese. E ciò a fronte di Autorità di sistema portuale, depotenziate dei loro poteri e fondamentali invece nell’aspetto regolatorio oltre che in quello di marketing complessivo dei porti che rientrano sotto il loro sistema di competenza.

L’ipotesi più accreditata che era circolata mesi addietro, quando l’avvio della riforma portuale veniva dato per imminente, si basava su un processo di centralizzazione (diametralmente opposto rispetto alla filosofia dell’autonomia differenziata delle Regioni): un unico Ente nazionale dei porti, simile per funzioni e caratteristiche ai Puertos de Estado operante in Spagna, avrebbe dovuto centralizzare programmazione, pianificazione e quindi scelta di priorità degli investimenti nei porti, ponendo fine agli sprechi e alla dispersione di risorse che, ad esempo la “vogli” di terminal container espressa praticamente da ogni porto italiano senza riscontro di mercato, implicavano e implicano.

Di quella riforma, che nessuno ha mai visto, si torna a parlare oggi ipotizzando la trasformazione di questo mega ente portuale in una holding che possa essere partecipata anche da azionisti privati, financo la conquista della maggioranza.

Secondo i sostenitori di questa impostazione privatistica, questo metodo sarebbe funzionale all’attrazione di investitori internazionali, che, a dire il vero, nei porti già stanno investendo, e in modo crescente nei terminal che le Autorità di sistema portuale hanno affidato loro, attraverso il regime delle concessioni.

Sia chiaro, la mancanza di un coordinamento fra porti, di scelte di priorità negli investimenti, ma anche di una integrazione fra porti e altre infrastrutture logistiche, si è fatta e continua a farsi sentire. Una cabina di regia nazionale, sarebbe quindi molto utile, ma non necessariamente ad azionariato privato, considerate anche esperienze internazionali non sempre di successo nella gestione di infrastrutture strategiche di trasporto da parte dei privati. Per attrarre più investimenti sarebbe sufficiente realizzare condizioni di trasparenza sulle concessioni demaniali. A meno che non si prenda in considerazione un ripensamento globale di finanziamento anche delle grandi infrastrutture (vedi la diga di Genova) attraverso formule analoghe a quelle delle concessioni autostradali. O che, ancora, si adotti una formula simile a quella degli aeroporti.

Di certo la necessità di far cassa, con la quale si deve confrontare il ministro Giorgetti,  nei porti si coniuga decisamente male con un coacervo di norme spesso collidenti e con un assetto di governance (certo non l’optimum ma comunque complesso anche solo da sfiorare) e di rapporti fra pubblico e privato consolidati sul meccanismo concessorio.

E la holding centrale dei porti, forse unico strumento possibile di compartecipazione alle scelte globali del sistema nazionale dei porti, è ancora obiettivo ben al di là dell’orizzonte temporale di una Legge Finanziaria.