Gli immobili sono immobili in due sensi, sia perché sono ancorati al suolo sia perché sono inchiodati sempre allo stesso valore.
La recente crisi pandemica non ha migliorato le cose: l’indice iShares delle proprietà immobiliari nei paesi sviluppati è sceso del 27% rispetto a un anno fa (l’inizio di aprile 2019) e del 24% rispetto all’inizio dell’anno (iShares Dev Mkts Prpty YLld ETF USD Dist). Ma la stragrande maggioranza degli italiani non compra immobili tramite un indice che rappresenta tutto il mondo “sviluppato”. Compra le case in Italia, per abitarci, per andarci in vacanze, o per affittarle, spesso vicino al luogo di residenza. Proviamo allora a confrontare Milano, considerata tra le piazze migliori, con altre importanti città mondiali.
Valore degli immobili in termini reali dal 1995 a Milano: calato del 9% negli ultimi 5 anni (e la pandemia non gioverà).
Milano è la città, tra quelle del mondo, che sono andate peggio. Più volte sono state discusse le ragioni di questa debolezza: i redditi delle persone sono in media stagnanti da troppi anni, pochi figli nascono e i migliori (poi più ricchi) vanno a lavorare all’estero. Però questi dati spiegano il calo costante dei valori degli immobili, non la riluttanza degli italiani a disfarsene. Al contrario la rendono ancora più misteriosa.
Ora il calo dura da lungo tempo, e non può essere stato ignorato dai più. Bisogna quindi cercare di spiegare la forte tendenza degli italiani a tenersi gli immobili intesi come una forma di investimento dei propri risparmi. Ovviamente la maggioranza degli immobili è di “servizio”, per abitarci o per andarci in vacanza. Talvolta questi ultimi possono venire affittati, ragion per cui la distinzione non è chiara. Quale è la quota di immobili che viene utilizzata da proprietari che considerano il valore dell’investimento irrilevante, proprio come si fa con tutte le cose vicine al nostro cuore, quelle che hanno un valore e non un prezzo? Non credo sia poi tanto alta, bisogna essere molto ricchi per ragionare così e sfrontati per ammetterlo (e anche quelli che lo ammettono, in fondo in fondo, non ci credono più che tanto e vorrebbero sempre credere d’aver fatto “un affare”). Comunque, almeno un miliardo e mezzo di immobili non serve se non come investimento “puro”, con la speranza cioè non solo di un affitto ma anche di una ricapitalizzazione. Perché tenerseli quando la speranza è vana? Un primo motivo molto generale è che il valore investito in un immobile conferisce un senso di sicurezza: è visibile, tangibile, sicuro, materiale e concreto (a differenza delle società dell’immateriale, temute come il massimo dell’evanescenza intangibile). Inoltre un immobile è nostro, proprio nostro, molto di più di un’azione come Microsoft o di un indice come il Nasdaq, che forniscono servizi condivisi con miliardi di sconosciuti. Non c’entra tanto e soltanto il valore affettivo. C’entra il fatto che un oggetto “nostro” vale di più perché è “nostro”.
Per decenni ho ripetuto nelle aule un esperimento congegnato in modo semplice: fate stimare a tutti il valore di un oggetto, per esempio una sveglietta che vale pochi euro. Poi dividete la classe in due gruppi:
- alle persone di metà classe regalate i soldi corrispondenti alla stima di ciascuno;
- all’altra metà la sveglietta.
Riunita la classe provate a chiedere a ciascuno: “Vuole andarsene con la sveglietta, regalata o acquistabile al prezzo della sua stima? Oppure con i soldi corrispondenti alla sua stima?” In fondo la questione è semplice ed è la stessa per tutti: soldi o sveglietta? Sveglietta o soldi? Non dovrebbero esserci differenze sistematiche tra i due gruppi. Scoprirete invece che chi ha posseduto la sveglietta, seppure per poco tempo, preferisce tenersela. E ciò avviene molto più spesso rispetto a quelli a cui avete regalato i soldi che pur potrebbero comprarsi la sveglietta. Il fatto è che per pochi miniti la sveglietta è diventata loro. Solo loro, e se ne distaccano a malincuore. Per farlo vogliono in media molti più soldi di quelli che non l’hanno posseduta. Così capita anche con le case (a cui, inoltre, ci si può per di più affezionare via via che passa il tempo). In conclusione le case sono anche un investimento personale, talvolta affettivo, non solo un modo percepito come sicuro di investire i risparmi (ma in realtà assai pericoloso e sconveniente).
Il valore degli immobili non si è ripreso mai. Dal 2015 al 2020 invece di riequilibrarsi rispetto al ventennio precedente, ha continuato a peggiorare.
La conclusione è ancora più paradossale se si pensa che per solito ciò che danneggia il possesso di azioni consiste proprio nel controllarne troppo spesso il valore. Se lo facessimo più di rado, avremmo meno paura delle temporanee discese, i rari momenti di mancato guadagno, come nel primo trimestre del 2020. Con le case facciamo il contrario: non ci chiediamo sovente quanto valgono. Ma questo non è un vantaggio perché, anche quando ci si accorge che sono calate di valore, si spera che in futuro ci sia un riequilibrio. Talvolta è successo, ma ora, purtroppo, abbiamo valicato per sempre un punto di non-ritorno. Le cose per gli italiani non ritorneranno più come prima.
Sembra tutto così semplice. Perché allora è così difficile da spiegare? Non esserci riusciti è il più disastroso (e costoso) fallimento delle scienze cognitive. Lo ammetto con amarezza, essendo forse in parte responsabile. Se avessimo tenuto solo le case che ci servivano veramente, e avessimo investito il restante lontano, nei mondi dell’intangibile, oggi avremmo abbastanza mezzi per uscire dalla crisi del virus senza indebitarci, cioè senza rubare il futuro delle prossime generazioni.