Chi ha la legittimità di guidare un governo? Chi è un politico? Chi è un tecnico? Gli analfabeti costituzionali spesso denunciano il complotto. L’usurpazione della democrazia. Urlano che questo o quel presidente del consiglio è un impostore perché nessuno lo ha votato. Nessuno lo ha eletto. Dimenticano o forse semplicemente non sanno che la nostra è una Repubblica parlamentare.
Il parlamento è sovrano e con la sua fiducia dà e toglie la linfa politica ai governi, perché esso, e non gli esecutivi, rappresenta, incarna e veicola la volontà del popolo sovrano espressa con il libero voto per eleggere i parlamentari presentati dalle forze politiche. Un tempo attraverso le preferenze, oggi attraverso i collegi uninominali e liste bloccate.
Nessun presidente del consiglio dei ministri è mai stato eletto direttamente dal popolo. La nostra forma di governo non lo prevede. Le riforme costituzionali che hanno provato a modificarla in modo esplicito – nel 2006 la riforma Berlusconi prevedeva l’istituzione di un premierato – o in modo subdolo – nel 2016 la riforma Renzi non prevedeva modifiche al ruolo del governo, ma con l’artifizio del combinato disposto di una riforma della legge elettorale maggioritaria e dell’abolizione del bicameralismo perfetto avrebbe dato di fatto più poteri all’esecutivo – sono stati bocciati dai referendum confermativi.
Gli italiani evidentemente al dunque non vogliono un potere esecutivo saldo. L’esperienza del ventennio fascista è rimasta come una traccia indelebile nella memoria immunitaria della società civile del paese. I padri costituenti hanno reso l’esecutivo debole per costituzione. E i cittadini si sono adeguati con placida abitudine a vedere crisi di governo su crisi di governo, senza che questo gli sollecitasse all’individuazione di un correttivo.
Neanche la legge elettorale Calderoli, il cosiddetto Porcellum, nella quale vi era l’indicazione del capo politico della coalizione ha prodotto una vera mutazione del sistema. Nel 2008 l’ampio successo elettorale ottenuto da Silvio Berlusconi gli permise di essere l’unico presidente del consiglio dei ministri messo dall’esito del voto nelle condizioni di accettare l’incarico di formare un governo senza riserva, consegnando contestualmente al ricevimento dell’incarico la lista dei ministri al presidente della Repubblica, che non poté obiettare alcunché. Ma resta una eccezione, appunto.
La prassi costituzionale venne intaccata una sola volta e poi tutto tornò come prima. La legislatura finì con un governo, cosiddetto tecnico, guidato da una figura estranea al parlamento, Mario Monti, al quale il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sentì il dovere di assegnare prima dell’incarico un seggio da senatore a vita per sanare il presunto vulnus di essere considerato elemento alieno al corpo parlamentare.
Eppure Monti rettore della prestigiosa università Bocconi di Milano e già Commissario Europeo non era certamente sconosciuto agli italiani. Anche Matteo Renzi non sedeva in Parlamento quando prese la guida del governo, ma poté scalzare il compagno di partito Enrico Letta in forza di un’ investitura democratica emersa grazie alla conquista della segreteria del partito democratico.
Giuseppe Conte fu nominato presidente del consiglio dei ministri da Sergio Mattarella senza che il paese nella primavera del 2018 sapesse minimamente chi fosse. Uno oscuro avvocato iscritto al M5S, neppure candidato alle elezioni. Questo passaggio, sì possiamo dirlo, fu forse il più ardito in una repubblica liberal-democratica occidentale. Mettere alla guida del governo una persona senza alcuna visibilità pubblica, ignoto non solo agli elettori, ma anche al sistema dell’informazione non solo fu un evento unico nella storia repubblicana, ma ha sancito l’inizio della crisi di sistema che da lunedì il parlamento in seduta comune sarà chiamato a sciogliere con l’elezione del nuovo capo dello stato.
Di Giuseppe Conte era oscuro il profilo politico, la storia personale, le idee, la visione. Questa assenza di radici e di struttura ideologica gli hanno consentito di guidare in continuità con se stesso due esecutivi fondati su identità politiche e obiettivi strategici fra loro inconciliabili. Dal governo popolar-sovranista dei porti chiusi alle navi delle Ong al governo popolar-democratico che ha sostenuto la nascita di una nuova stagione europeista a Bruxelles. Questa dicotomia di Conte non ha retto alle prove della gestione pandemica ed economica e ha prodotto il fallimento dell’esperienza di governo.
Da quella crisi si è aperta la strada che ha portato alla nascita del governo di unità nazionale guidato da un’altra figura estranea al parlamento, Mario Draghi. Ma al contrario di Conte, Draghi era uomo pubblico prima dell’incarico, conosciuto, radicato nella storia delle istituzioni repubblicane ed europee, chiaramente espressione di una visione ideologica, non necessariamente figlia di una fazione partitica, ma ciò nonostante ben definita dentro l’alveo dell’europeismo e del radicamento ai valori democratici occidentali.
La legislatura nata nel 2018 non ha mai visto a Palazzo Chigi un “politico”. Né Conte, né Draghi sono stati votati, non siedono in parlamento. Alla fine di questi diversi percorsi uno è divenuto capo politico di un movimento, che nato come forza anti sistema nel sistema si è radicata così bene da parodiarne tutti i peggiori difetti. L’altro è destinato invece a divenire il garante del sistema istituzionale democratico nazionale agli occhi della comunità politica e finanziaria internazionale.
Il parlamento e le forze politiche a partire dal 24 gennaio potranno e dovranno rinnovargli la fiducia. Ma una fiducia più piena e più ampia. Una fiducia che lo issi sul massimo scranno repubblicano, lì dove potrà, in accordo con le stesse forze politiche esanimi, proseguire la gestione dello stato d’eccezione. Nominare un nuovo presidente del consiglio, quasi certamente anch’egli estraneo al parlamento, che prosegua il compito di supplenza dei partiti iniziato da Draghi. Gestendo in stretto rapporto fiduciario con il Colle la crisi pandemica e utilizzando l’ultimo scorcio della legislatura per invitare le forze politiche a dare una forma coerente, attraverso una riforma, alla prassi costituzionale che sarebbe così profondamente innovata da questo passaggio.
Il parlamento sovrano può scegliere due veri politici fuori dai suoi ranghi, uno per il Colle e uno per Chigi, visto che ormai la politica vera non abita più in parlamento.
Antonello Barone, 22 gennaio 2022