Il 7 novembre del 2011 le strade di Roma furono invase da giovani festanti che esultavano per le dimissioni da presidente del consiglio dei ministri di Silvio Berlusconi. Su Twitter, social al tempo da poco divenuto rifugio di giornalisti e appassionati di politica, spopolava l’hashtag #AEIOUY assurto in pochi minuti a trending topic della giornata.
Le sei vocali dell’alfabeto ritmate a passo di samba, divenute celebri grazie alla canzone Brigitte Bardot di Jorge Veiga, colonna sonora di ogni festa che preveda un trenino gaudente, erano l’implicita metafora di una gioia incontenibile di un popolo, quello italiano, che finalmente credeva di essersi liberato per sempre del presunto despota. Quei ragazzi per le strade della Capitale assaporavano l’inizio di un nuovo tempo. La fine del berlusconismo. Più per incapacità politica del leader azzurro nel gestire la crisi economica e per mano della finanza internazionale e dei governi francese e tedesco, che per forza dell’opposizione parlamentare. L’inizio, a chicchessia fosse dovuto il merito, comunque di una nuova fase basata sulla speranza di una imminente rivincita del centrosinistra che avrebbe potuto chiamare le immediate elezioni e vincerle.
Sappiamo che non andò così. La crisi dello spread impose la responsabilità di un governo tecnico. Bersani leader del PD accettò suo malgrado le indicazioni del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di votare la fiducia al governo Monti. Le elezioni ci sarebbero state solo nella primavera del 2013 e il centrosinistra riuscì nell’incredibile impresa della “non vittoria”. Sulla scena politica entrava con prepotenza un nuovo protagonista: il M5S.
Bersani non solo non riuscì a formare un governo, non solo bruciò da kingmaker dell’elezione del presidente della Repubblica ben due suoi candidati, Marini e Prodi, ma fu costretto a dare il suo consenso alla nascita, sotto l’ala protettrice del rieletto capo dello Stato Napolitano, di un governo di grosse koalitionen, come si diceva all’epoca, guidato da Enrico Letta con il supporto dell’odiato Cavaliere nero.
Dieci anni dopo il berlusconismo non solo non è finito, nonostante i processi, le condanne ai servizi sociali, l’espulsione dal Senato in applicazione della Legge Severino, le testimonianze puntuali e pruriginose sulla dequalificante per l’Italia nel mondo epopea del Bunga Bunga, i governi gialloverdi e giallorossi, il calo dei voti nelle urne e di consenso nei sondaggi. No, non solo non è finito, ma è talmente radicato all’interno del sistema politico e nell’immaginario collettivo degli italiani che il centrodestra di Salvini e Meloni ha ufficializzato che il proprio candidato alla carica di presidente della Repubblica è proprio lui, Silvio Berlusconi, classe 1936.
Ora Berlusconi può decidere come giocare la sua partita finale, quella che lo consegnerà alla storia. Salvini e Meloni gli hanno messo in mano l’intero mazzo di carte per decidere la partita del Quirinale, utilizzando la formula “è il nostro candidato se scioglie la riserva”.
Berlusconi potrà decidere di non accettare la candidatura e promuovere l’intesa su una figura capace di unire il paese e raccogliere i voti di tutte le forze parlamentari, seguendo il consiglio di Gianni Letta, e così riabilitarsi agli occhi di alleati e avversari come vero custode dell’interesse del Paese. Il gesto finale dello statista che dovrebbe essere riconosciuto anche dai suoi più acerrimi nemici. Oppure può decidere di incaponirsi fino alla fine. Portare il Parlamento in seduta comune fino al quarto scrutinio, quando occorrerà solo la maggioranza relativa. Condurre all’estreme conseguenze la sua “Operazione Scoiattolo”, quella nella quale è impegnato da giorni per cercare i consensi fra i grandi elettori del gruppo misto e anche fra i grillini e i democratici che possano consentirgli di racimolare i 30/40 voti mancanti alla sua elezione. Franchi tiratori permettendo.
Che “l’Operazione Scoiattolo” riesca o meno la scelta del centrodestra resta una iniziativa, politicamente legittima, ma chiaramente contro lo spirito che il Paese sta vivendo. Contro il governo di unità nazionale. Contro Mario Draghi e Sergio Mattarella che di questa fase di concordia politica erano i promotori, i custodi e i possibili prosecutori. Contro le forze del centrosinistra e del M5S che saranno indotte alla reazione sdegnata, respingendo al mittente la proposta avanzata dal centrodestra.
La rivincita di un uomo, certo dato troppo in anticipo per finito, ma che pretende la sua rivalsa politica a dispetto dell’interesse del Paese. E in caso di fallimento a dispetto del futuro del centrodestra.
Antonello Barone, 15 gennaio 2022