30 giugno del 1960. Data dimenticata: il governo monocolore democristiano sta in piedi solo grazie ai voti dell’MSI, il Movimento Sociale Italiano, che convoca a Genova, città insignita della medaglia d’oro alla Resistenza, il suo Congresso nazionale. La miccia prende fuoco in piazza De Ferrari, davanti al Palazzo che attualmente è sede della Regione Liguria. Le forze dell’ordine caricano più volte i manifestanti, ma soccombono; dirigenti della Celere sono picchiati e lanciati nella fontana, camionette vengono date alle fiamme, gli scontri sono violentissimi e si protraggono per ore.
L’incendio da Genova si propaga a tutta l’Italia; l’8 luglio il governo guidato da Tambroni, benché abbia in Parlamento i numeri e i voti necessari per governare, cade sancendo l’esistenza di due norme non scritte nella Costituzione: la prima è relativa al divieto, che di fatto si perpetuerà per anni, di formare qualsivoglia coalizione di governo che comprenda partiti di destra, definiti sempre e comunque neo-fascisti. La seconda riguarda l’accettazione della volontà popolare espressa da piazze violente come sistema per cambiare governi.
Cosa c’entra con i porti? C’entra eccome. Perché la punta di diamante delle manifestazioni del 1960 e di tante altre successive saranno proprio i portuali, nel caso di Genova, i “camalli” che in cambio di una militanza inossidabile e a una disponibilità a guidare le manifestazioni di piazza, ottengono per decenni il riconoscimento di uno status di “unicità” anche nel panorama degli altri lavoratori del Paese.
Sulle banchine si sviluppano e si applicano norme anomale e originali, come il “lavoro con pioggia” che viene retribuito ai camalli con una addizionale sulla retribuzione oraria; oppure la “nave a finire” che premia con un bonus i portuali che si prestano ad allungare il turno per completare lo sbarco o imbarco delle ultime casse di merce che casualmente a fine turno sono rimaste indietro in banchina o nella stiva della nave; o ancora i “ganci bassi” che connotano quei lavoratori che all’interno delle Compagnie portuali non sono più in grado di operare in funzioni faticose fisicamente e quindi sono addetti a caricare la merce al gancio della gru solo in basso dove si fa meno fatica; anche se proprio i team dei ganci bassi alimentano i professionisti delle manifestazioni di piazza, sindacali e no.
Genova negli anni diventa il simbolo di una unicità, che è poi distorsione del mercato. Chi comanda non è il vecchio e arrugginito Consorzio autonomo del porto (il Cap), ma sono i portuali della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie (Culmv), che decidono ritmi di lavoro, e di non lavoro, e che gonfiano a dismisura i loro organici sino a sfiorare quota 8000 in perfetta controtendenza con l’andamento dei traffici che continuano a calare. Ma in fondo, in fondo, anche a chi protesta e avrebbe tutti i motivi per farlo, va bene così.
I portuali e l’inefficienza e inaffidabilità alla quale condannano il più importante porto d’Italia, garantiscono anche la parte più deteriore degli operatori privati che in questo sistema malato si sono scavati nicchie remunerative e che nella Compagnia Unica e nelle sue bandiere rosse sventolate in piazza trovano un eccezionale alleato per impedire ad altri, venuti da fuori, di cercare ruoli o investire nel porto di Genova. Anche se paradossalmente costituita dal Duce come Corporazione, la Culmv è per decenni il vero potere in città.
Per altro Genova non è un’eccezione. A Livorno, altro porto con una Compagnia portuale numericamente potente, i portuali, alimentati anche da fondi che in molti affermano provenire direttamente dall’Unione sovietica, acquisiscono terreni, immobili popolari, centri sportivi, interi quartieri decretando anche l’affermazione di vere e proprie famiglie regnanti che si tramandano di padre in figlio il diritto a governare il porto.
Non casualmente, Angelo Ravano, uno dei fondatori della logistica moderna, a chi gli chiederà il segreto del successo del suo terminal di La Spezia e dell’intero porto del levante ligure, non esiterà ad affermare: da noi in porto vengono a lavorare i primogeniti di famiglie contadine e nell’unico porto che non è controllato dalla Cgil, il lavoro in banchina è considerato un ascensore sociale e una opportunità a non spezzarsi la schiena arando i terrazzamenti agricoli di una regione terribilmente faticosa per chi deve coltivarla.
La grande politica, quella romana, quella della Prima Repubblica, dei porti si disinteressa, se non per finanziare progetti mastodontici che si trasformano, ancora prima di entrare in funzione, in cattedrali nel deserto e monumenti a una programmazione “pelosa”. La memoria si sfrangia, o forse è meglio dimenticare, ma quelli che diventeranno o cercheranno di diventare i principali terminal container del Paese, Genova-Voltri e Gioia Tauro con successo, Taranto con una infornata di insuccessi, nascono per altre funzioni. Genova per ospitare le navi che trasportano carbone per le centrali e per alimentare di energia la siderurgia che si è sviluppata nel polo industriale genovese. A Gioia Tauro le banchine sono state costruite in acque profonde per servire il V Centro Siderurgico che non sarà mai costruito e che provocherà solo la distruzione di centinaia di ettari di terreno coltivati a limoni. A Taranto è tutta un’altra storia. L’inseguimento di vocazioni e funzioni, in una città che si è stretta urbanisticamente attorno alle mura dell’impianto siderurgico (e non il contrario) hanno falle da tutte le parti e certo non contribuiscono alla soluzione dei problemi gli uomini che vengono posti in sala comando.
È in questa portualità corporativa, arruffona e mangia soldi che l’avvento del container produce una reazione a catena, simile a quella di una bomba a grappolo. Non scardinerà i poteri ma genererà terremoti epocali, producendo la privatizzazione dei grandi terminal, l’arrivo di operatori internazionali in grado di gestirli in una logica di mercato e di sviluppo contrapposta a quella di conservazione e difesa dei privilegi.
Una rivoluzione epocale che sarà contrassegnata da veri e propri blitz ma anche dall’emergere di figure politiche che, pagando prezzi personali altissimi (basti ricordare le carcerazioni dei ministri della Marina mercantile, Calogero Mannino e Cesare Prandini, entrambi prosciolti dopo anni di galera, e ricordati, da pochi, come i protagonisti di riforme epocali) scardineranno le logiche di potere sulle banchine. O quasi. Come un prepensionamento record anche per i costi indotti, il numero dei portuali Culmv a Genova scese a circa 600 soci poer poi risalire grazie a deroghe, favori e mancata vigilanza, oltre quota mille.
Un esempio fra i tanti, anche a testimonianza di un radicamento di potere politico nei porti che tutt’ora rappresenta una costante: la maggior parte dei presidenti che si succedono ai vertici prima delle Autorità portuali e quindi delle Autorità di sistema portuale alle quali il ministro Del Rio con la sua riforma affida la gestione degli organismi di programmazione, controllo e marketing di più porti, hanno radici a sinistra. Non solo perché sono nominati (inclusi quelli in carica) o confermati nel loro ruolo da ministri in maggioranza PD (il Cinque Stelle Toninelli non ha fatto in tempo a collocare qualcuno dei suoi), ma perché comunque sulla catena di comando che collega il ministero prima della Marina mercantile, poi dei Trasporti, quindi dei Trasporti e delle Infrastrutture e con rarissime eccezioni (come nel periodo di Altero Matteoli) con la macchina burocratica dello stesso dicastero, a scendere sino alle Istituzioni di governo dei porti (Autorità di Sistema Portuale) per non dimenticare il mondo del lavoro (stabilmente sotto controllo delle Compagnie portuali e della Cgil) sventola una sola bandiera.
Questo breve libro di memorie sui presidenti che hanno comunque lasciato il segno nella portualità italiana consentendole di cambiare e avviare un percorso verso il recupero di efficienza e competitività, non ha tenuto conto delle matrici politiche. A fianco dei craxiani Roberto D’Alessandro e Rinaldo Magnani a Genova, figurano personaggi simbolo come Francesco Nerli, comunista della prima ora specialmente grande uomo di porto, o Paolo Costa, Sindaco di Venezia, Ministro dei Trasporti quindi Commissario europeo.
Uomini che hanno creduto nel cambiamento, che hanno sostituito una gestione commerciale tipica degli empori portuali d’antan con governance industriali e manageriali, ma specialmente con tanto, tanto coraggio.
2) continua… Prossima puntata lunedì 25 novembre
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Si ringraziano per la collaborazione:
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