È difficile parlare di Paola Egonu, parlarne dico in modo equilibrato: la diva o la ami o sei un infame, bianco, razzista, schiavista, ti ci vorrebbe una rieducazione a forza di filmetti edificanti e allusivi con Favino. Su questo ricatto Egonu ha costruito non la carriera ma il modo di stare al mondo, il divismo facile sì e questo divismo alla fine le è franato addosso. Ma possiamo parlarne in modo spassionato, cercando di capire, e non è facile, i tarli, le presunzioni e magari le depressioni di una diventata ingombrante a se stessa?
Egonu dunque, favorita dalla natura che l’ha fatta lunga e potente, assurge a campionessa, di quelle insopportabili anche alle compagne per cui trasmigra in Turchia, vince, torna, affermando, testuale, a un programma canterino che l’Italia è un paese di merda, che non la merita. Ma non è in forma, sembra più determinata davanti alla rete dei social che a quella del campo. In Nazionale il tecnico Mazzanti che non ama le primedonne, quelle che spaccano gli spogliatoi, la lascia fuori, la sostituisce con la ucraina Andropova, poi senza entusiasmo la recupera. L’Europeo dopo un inizio promettente finisce in disfatta e alla vigilia di un torneo preolimpico in Polonia il coach si ostina nella sua decisione, Egonu fuori dalle titolari, al che lei molla tutto con gran clamore.
Ha fatto bene, per se e per la squadra? È una presuntuosa che pensa solo a se e sacrifica la squadra? Chi la venera dice che non poteva né doveva fare altro, che una superstar come lei ha un rango da difendere e non può farsi trattare come una giocatrice qualunque; la stampa amica, quasi tutta perché dietro ci stanno le agenzie di comunicazione e gli sponsor che controllano l’informazione, la sostiene, vogliono la testa di Mazzanti per lesa maestà; chi la lunga non la sopporta, chi ne ha abbastanza del suo protagonismo, del suo egocentrismo, risponde che ha stancato, che la sua fama è immeritata, che dovrebbe pensare più ad allenarsi e meno alle copertine.
E che il gran rifiuto si deve più a scrupoli di griffe che di orgoglio sportivo. Magari c’è del vero in tutto e dell’esagerato in tutto, magari ha ragione Mazzanti che dice: io non posso lasciarmi ridurre lo spogliatoio a un campo di Agramente per le mattane di una esaltata: pare che la divina lo abbia aggredito in un modo furibondo e quasi fisicamente violento; però i risultati, anche cambiando, sostituendo, rimettendo dentro la lunga per poi sbatterla ancora in panchina, dove stanno?
Chi di sport mastica lo stretto necessario sa, capisce che dietro ci stanno i rapporti in frantumi fra chi dovrebbe decidere, l’allenatore, e chi pretende decidere, la diva. Sono quelle situazioni per cui tutti perdono, il mister dovrebbe essere quello del potere ultimo, la responsabilità è la sua, ma il potere, come per Pilato che crocifigge Cristo, viene sempre dato da qualcuno e anche nelle faccende sportive lo sport è l’ultima cosa, dietro affiorano le federazioni, i clan dentro e fuori lo spogliatoio, i marchi, la politica, se succedeva con la staffetta fra Mazzola e Rivera, 50 anni fa, figuriamoci con una che ad ogni pretesto fa la martire del razzismo ed è corteggiata, questo lo sappiamo tutti, dal Pd peggio che Lucia Annunziata.
Dal ginepraio non si esce, ed è facile, fin troppo, pensare: senti giovane Paola, coi tuoi dolori sei diventata un romanzo goethiano e non abbiamo voglia di leggerlo, stai al tuo posto, arrangiati, impegnati o fai altro. Ma con tutta l’insofferenza del caso, in questa minima moralia dai grandi guadagni lucrati e perduti, fin che se ne parla si ha il dovere di porsi una domanda: io nei suoi panni avrei fatto diversamente? E si potrebbe dire: quanti di noi nelle più modeste collocazioni di un ufficio, una redazione, sono disposti ad assumersi tutta la responsabilità di una esclusione, quanti preferiscono percepirsi come capro espiatorio, anche senza gli sponsor che ti pagano somme spropositate, ti scoppiano l’ego, ti fanno vivere in una bolla di irrealtà condensata da una scritta su un braccio, “io voglio tutto subito”?
Max Del Papa, 5 settembre 2023