Ma come considera la Ferrante i suoi lettori? Lo scrive lei stessa: «Chiamo io L’Espresso, mi propose il direttore della casa editrice, in questo momento se tu esci con un pezzo del genere fai un gesto importante per te, per il tuo pubblico, per tutti, mostri che l’Italia in cui viviamo è assai peggio di quella che ci raccontiamo» (la Ferrante, per sua stessa ammissione non ha dei lettori, ha un «pubblico»).
Il suo grande successo negli Stati Uniti, invece, lo deve ai molti passaggi pizza e mandolino come questo: «Ora cercava testimonianze di viaggiatori stranieri dentro cui le pareva di rintracciare incanto e repulsione mescolati insieme. Tutti, diceva, tutti, di secolo in secolo, hanno lodato il grande porto, il mare, le navi, i castelli, il Vesuvio alto e nero con le sue fiamme sdegnate, la città ad anfiteatro, i giardini, gli orti e i palazzi. Ma poi, sempre di secolo in secolo, sono passati a lagnarsi dell’inefficienza, della corruzione, della miseria fisica e morale. Nessuna istituzione che dietro la facciata, dietro il nome pomposo e i numerosi stipendiati, funzionasse davvero. Nessun ordine decifrabile, solo una folla sregolata e incontenibile per le strade ingombre di venditori d’ogni possibile mercanzia, gente che parla a voce altissima, scugnizzi, pitocchi. Ah, non c’è città che diffonda tanto rumore e tanto strepito come Napoli».
Una fotocopia tra il Viaggio in Italia di Goethe e il Grand Tour degli scrittori dell’800.
Gian Paolo Serino, 7 novembre 2019