Elezioni regionali, chi ha vinto e chi ha perso

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La nottata elettorale, con il successo larghissimo del centrodestra in Calabria e – all’opposto – la riconferma del governatore uscente in Emilia-Romagna, ci consegna almeno sei spunti di riflessione.

1. Ha vinto Stefano Bonaccini. Personalmente, non mi sono piaciuti i pugni chiusi di diversi suoi sostenitori, mentre entrava da vincitore nella sede del comitato elettorale; non mi sono piaciuti i toni irridenti verso Matteo Salvini; non mi è piaciuto il fatto che, anche nei collegamenti televisivi, non sia venuta una convincente parola di simpatia e di attenzione, una mano tesa, verso la mezza Emilia-Romagna che non lo ha votato. Nell’archivio e nei magazzini del partito, insomma, sembra rimasta una buona dose di antica arroganza.

Ma – nonostante tutto questo – resta il fatto che Bonaccini abbia vinto, e abbia avuto ragione in molte scelte decisive. Nel cancellare i simboli del partito, nel tenere alla larga dirigenti nazionali elettoralmente radioattivi, nel replicare alla mobilitazione di Salvini suscitandone una uguale e contraria. La morale che se ne trae è che la sinistra resta forte e temibile in una parte del paese, pur rimanendo assolutamente minoritaria sul piano nazionale.

2. I Cinquestelle non esistono più. In chimica, si parla di sublimazione: il passaggio di una sostanza dallo stato solido direttamente a quello gassoso, senza neppure passare per lo stato liquido. In Calabria, dove due anni fa avevano vinto tutti i collegi e ottenuto uno spettacolare 40%, i grillini rischiano adesso di non entrare nemmeno in Consiglio regionale; in Emilia-Romagna, l’umiliazione è stata ancora più netta. In due soli anni, sono stati spolpati, come il marlin de Il vecchio e il mare di Hemingway: il primo anno dalla Lega, e il secondo dal Pd.

E proprio al Pd è riuscito di risucchiare quel che rimaneva del M5S, convincendo i residui elettori pentastellati che l’unico voto utile contro Salvini era quello per Bonaccini. Capisco che a questo punto scatti l’istinto di sopravvivenza degli attuali deputati e senatori grillini, che, in caso di nuove elezioni, tornerebbero a casa quasi senza eccezioni. Ma è per lo meno anomalo, e a mia memoria senza precedenti, che il partito di maggioranza relativa venga azzerato in una elezione intermedia, e tutto resti come prima.

3. A Roma, la spinta per non votare, per blindarsi nell’attuale Parlamento, sarà ancora più forte. Ed è molto probabile che i giallorossi a questo punto ci riescano, a maggior ragione avendo nel mirino 300 nomine pubbliche, un bottino che certamente non si faranno sfuggire nel corso della primavera. Ma questa non è una buona notizia per gli italiani: il governo resta fragilissimo, minoritario in due terzi delle regioni italiane, e con ricette (dalle tasse all’immigrazione, passando per il rapporto con l’Ue) urticanti per la maggioranza degli elettori. Andranno certamente avanti: ma sarà solo un protrarsi dell’agonia e del relativo accanimento terapeutico.

4. La buona notizia di questa tornata, indissolubilmente legata al crollo dei Cinquestelle, sarebbe il ritorno del bipolarismo. Eppure, anche questa opportunità sembra destinata a essere uccisa nella culla: i giallorossi (e forse non solo loro) vogliono il ritorno a un sistema elettorale proporzionale. È bene dirlo: si tratta di una mossa che renderà il quadro politico ancora più frazionato, più fragile, più litigioso.

5. Matteo Salvini non è riuscito ad assestare la spallata che sognava. Ma presentarlo come isolato (dalla notte scorsa questo è il tentativo di non pochi commentatori) appare abbastanza surreale. Un leader (il risultato di lista in Emilia-Romagna conferma questa ipotesi) che sul piano nazionale rappresenta un elettore su tre, è naturalmente al centro del ring. Gli si rimprovera di aver polarizzato il confronto: ma è suo interesse polarizzare ogni confronto, nella logica di una costante scelta di campo tra lui e gli altri. Continuerà a farlo, la previsione è facile: e realisticamente manterrà il centro della scena e dell’agenda mediatica.

6. Quasi nessuno sembra preoccuparsene (e meno che mai occuparsene), ma al centrodestra manca una visibile componente di impronta liberale, conservatrice ma libertaria. Numericamente, non so quanto potrebbe pesare: ma culturalmente, sarebbe necessaria per offrire una nuance che oggi non c’è. Serve a poco aggiungere altra folla in aree di destra che sono già saldamente ed efficacemente presidiate da Lega e Fratelli d’Italia, o alimentare antistoriche spinte confessionali e da destra tradizionalista. Forse varrebbe la pena di offrire al centrodestra del futuro un altro apporto, elettoralmente più piccolo ma capace di arricchire e aiutare le componenti oggi maggioritarie in quell’area. A volte è il tono che fa la musica: e il tono liberale sarebbe – a me pare – di grande aiuto.

Daniele Capezzone, 27 gennaio 2020

 

 

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