Il politicamente corretto miete l’ennesima vittima illustre. Questa volta a farne, suo malgrado, le spese è la stilista emiliana Elisabetta Franchi, condannata dal tribunale di Busto Arsizio in quanto rea di aver pronunciato frasi aventi “carattere discriminatorio” a margine dell’evento Donna e moda, lo scorso 4 maggio 2022.
Nel dettaglio, il provvedimento emesso dal giudice della Sezione lavoro del tribunale bustocco, ha disposto a carico della società Betty Blue spa, di cui la Franchi è amministratore, il pagamento della somma di 5mila euro a titolo di risarcimento in favore dell’Associazione nazionale lotta alle discriminazioni (ANLoD). Il giudice, Francesca La Russa, ha inoltre condannato la società amministrata dalla stilista alla pubblicazione della sentenza su un quotidiano, a proprie spese, entro il termine di trenta giorni, nonché ad osservare l’obbligo di adottare, entro il termine di sei mesi, un apposito piano di formazione aziendale sulle politiche contro la discriminazione, che preveda la realizzazione di corsi annuali con l’intervento di esperti a cui tutti i dipendenti saranno necessariamente chiamati a partecipare.
Infine, il tribunale ha ordinato la promozione di un abbandono consapevole di qualsivoglia genere di pregiudizio nelle fasi di selezione del personale per le posizioni di vertice. E in caso di mancata attuazione dei predetti provvedimenti, la società della Franchi sarà inoltre tenuta a versare alla sopra citata associazione la cifra di cento euro per ogni giorno di ritardo. E questo è quanto. Ma quali sono le parole incriminate costate la condanna a Elisabetta Franchi? Si tratta realmente di frasi cotanto discriminatorie? A ben vedere no. Affatto.
Anzi, sembrerebbe quasi che la stilista abbia riportato tale condanna semplicemente per aver detto delle ovvietà, evidentemente inconciliabili con gli stringenti canoni imposti dalla correttezza politica. Nello specifico, riferendosi alle donne over 40, la Franchi ebbe a dire: “Se dovevano sposarsi, si sono già sposate, se dovevano fare figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi, hanno fatto anche quello e quindi diciamo che io le prendo che hanno fatto tutti e quattro i giri di boa, quindi sono lì belle e tranquille con me al mio fianco e lavorano h24”. Un susseguirsi di ovvietà, appunto, né più e né meno.
È bastato questo per scatenare l’ira funesta dell’associazione anti discriminazioni e per apporre con effetto immediato l’etichetta della sessista di turno sul petto della stilista. Come se quanto da lei detto non corrispondesse effettivamente a verità, o se l’intento di Elisabetta Franchi fosse quello di colpire le donne in quanto tali e non quello di sollevare un tema serio, che pone i riflettori su alcune criticità del mercato del lavoro in Italia. Altro che discriminazione.
Ma questo, evidentemente, ai sacerdoti della correttezza politica non importa. Come non importa il fatto che il 78% dei dipendenti della Franchi sono donne. Praticamente un’azienda in rosa. L’unica cosa che veramente sembra contare è punire il libero pensiero dell’individuo, ancora meglio poi se imprenditore, come nel caso specifico, solo perché disallineato con il sacro credo femminista e non conforme all’ortodossia politicamente corretta, da cui, evidentemente, non è consentito discostarsi. Pena, come in questo caso, la condanna per reato di eresia.
Salvatore Di Bartolo, 6 giugno 2024
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