Il dato è tratto. Ma risulta decisamente amaro. Elly Schlein ha atteso fino all’ultimo prima di annunciare la sua candidatura alle elezioni Europee e non è andata come si aspettava. Nessun grido di giubilo. Nessun applauso scrosciante. Nessun inno di lode per la segretaria che scende in campo a cercare di risollevare le sorti di un Pd che, dopo la sconfitta in Abruzzo, il caos in Basilicata e la raffica di arresti in Puglia sembra più sperduto che mai.
Schlein, leader a metà. Come un po’ tutti i segretari del Pd, costretti a barcamenarsi tra le istanze dei cattolici e quelle dei post comunisti, impegnati a tenere il partito sulla striscia dell’Alleanza Atlantica ma anche a giurare fedeltà al pacifismo duro e puro. Un partito trasformato in lotta tra bande, chiamate col nome politicamente corretto di correnti, abituato ad una gestione orizzontale, ma che avrebbe enorme bisogno di un leader forte, carismatico, che imponga le scelte senza preoccuparsi di doverne spiegare i motivi.
A far infuriare i maggiorenti dem, a partire da Romano Prodi il quale teoricamente sarebbe in pensione, è stata la scelta di candidarsi come capolista in due circoscrizioni (Centro e Isole) ed apporre il nome “Schlein” sul simbolo del Pd. “Come ci batteremo contro il premierato della Meloni” se Elly personalizza così addirittura le Europee? Un affronto, per alcuni, che vedono nella leaderizzazione del partito il peggiore dei mali. Come se il berlusconismo si fosse impersonato del suo nemico più acerrimo, tanto più che l’unico precedente risale a Walter Veltroli ma al tempo delle politiche in cui andava indicato il candidato premier. Ha gioco facile Renzi a ricordare cosa disse Bersani: “Mettere il nome nel simbolo è una malattia, non la cura”. Senza dimenticare che Schlein una volta eletta lascerà pure il seggio a qualcun altro.
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La ribellione interna risuona come una bocciatura. In Direzione si oppongono platealmente Gianni Cuperlo, Graziano Delrio, Laura Boldini, Susanna Camusso, Piero Fassino e una sfilza di cattolici e post comunisti. Anche Peppe Provenzano e Roberto Speranza rumoreggiano. E forse neppure a Dario Francischini l’idea piace. Esulta solo Stefano Bonaccini, in silenzio, il quale non solo si è assicurato un posto da capolista come richiesto ma ha pure ottenuto l’effetto di indebolire la segretaria, convinto di poterle soffiare il posto qualora le Europee dovessero costringere Schlein a rassegnare le dimissioni.
Ora per Elly son guai. Primo: perché è leader a metà di un partito che già non la apprezza più. Secondo: perché le ultime scelte politiche che ha tentato di imporre, vedi la linea pacifista su Israele e Ucraina o la candidatura di Ilaria Salis si sono trasformate in una mezza Caporetto. Terzo: perché ora si trova di fronte a un tremendo bivio. Se insiste con il nome nel simbolo, perderà la poca fiducia rimasta tra i senatori dem. Se ci ripensa, suonerà come l’ennesima ritirata di un capo incapace di comandare. Di sicuro, da oggi Schlein invidia Giorgia Meloni. A destra la leadership forte non ha mai fatto paura: il premier può fare e disfare come meglio crede il suo partito, e tutti le vanno dietro. Un bel vantaggio.
Franco Lodige, 22 aprile 2024
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