Gentile Emanuele Filiberto di Savoia,
innanzitutto mi permetta di presentarmi: mi chiamo Michael Sfaradi, ho sessanta anni e oltre a essere scrittore, ho pubblicato in lingua italiana nove romanzi tre dei quali hanno vinto premi letterari, sono anche giornalista e reporter di guerra iscritto alla Tel Aviv Journalist Association. Come figlio e nipote della Shoah ho letto con estrema attenzione la lettera che lei ha indirizzato agli ebrei italiani, lettera alla quale riceverà sicuramente risposte ufficiali dai responsabili dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Con questa mia lettera aperta, che verrà firmata anche da alcuni amici, conoscenti, correligionari e non, ho il desiderio di portare alla sua conoscenza i sentimenti e le sensazioni, sia negativi che positivi, nati in me mentre leggevo il suo scritto. Sia chiaro: il gesto è stato molto bello e, sicuramente, anche sofferto. Soprattutto nella parte dove ha ricordato le sue zie Mafalda e Maria di Savoia. Credo altresì che sia stato giusto ricordare che il suo avo, Re Carlo Alberto, fu tra i primi sovrani a concedere ai sudditi ebrei piena uguaglianza di diritti. Della sua lettera mi è anche piaciuta la parte in cui ricorda i soldati ebrei inquadrati nel Regio Esercito Italiano che combatterono per fare l’Italia come, ad esempio, il Capitano Giacomo Segre che comandò la batteria di cannoni che aprì la breccia di Porta Pia nella battaglia che restituì Roma all’Italia.
Gentile Emanuele Filiberto di Savoia, mi permetta di ricordare altresì mio nonno Angelo Sermoneta, il padre di mia madre, artigliere di montagna che combatté, insieme al suo mulo, prima a Caporetto e poi sul Piave, ricevendo anche un’onorificenza per il coraggio dimostrato. Onorificenza che gli fu poi ritirata proprio in virtù di quelle leggi razziali che il suo bisnonno, Vittorio Emanuele III firmò. Ma non è tutto, mio nonno, che combatté per fare l’Italia, sempre in virtù delle medesime leggi, vide cacciare di scuola i suoi figli e gli venne ritirata la licenza per lavorare. Questi due esempi che ho elencato e che riguardano la mia famiglia, sono solo una piccola parte delle angherie che l’ebraismo italiano ha dovuto subire sempre grazie alle leggi razziali avallate da Casa Savoia.
Non credo che lei abbia alcuna responsabilità personale per fatti accaduti prima della sua nascita e, anche se ho apprezzato la sua lettera, mi permetta di dirle che il gesto, per quanto pieno di buone intenzioni, ha riaperto in molti di noi ferite mai chiuse e ancora, nonostante il passare degli anni, dolenti. Ci sono poi alcuni particolari che proprio non tornano e che vorrei porre alla sua attenzione. Innanzitutto credo che quella lettera non doveva essere scritta da lei, ma da suo padre. Se quel foglio fosse uscito dalla penna del nipote di chi firmò quelle leggi, il peso dei pensieri, e lo scrivo con tutto il rispetto, sarebbe stato maggiore e le parole avrebbero avuto tutt’altro significato. Se la memoria non mi inganna, come maschi della famiglia Savoia siete finalmente potuti tornare in Italia nel 2002, perché questa lettera viene scritta nel 2021? A diciannove anni di distanza? Chiedere perdono per qualcosa è un atto sacro che merita tutto il rispetto, ma secondo le leggi e le tradizioni ebraiche nessuno può arrogarsi il diritto di perdonare torti subiti da altri.
Questi diciannove anni di attesa, mi duole dirlo, hanno fatto sì che molti di coloro che le leggi razziali le subirono sulla loro pelle non ci siano più, e solo queste persone avrebbero potuto perdonare le angherie, la violenza, le deportazioni e la perdita dei loro cari. Non posso sapere a cosa sia dovuto questo ritardo, e a questo punto non ha più neanche molta importanza scoprirlo, come non so quali potranno essere le risposte ufficiali che riceverà dai responsabili dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane anche se sono sicuro che dopo la pubblicazione della sua lettera avrà contatti con l’U.C.E.I. Mi creda, a prescindere dall’ufficialità, per mitigare il dolore nella gente comune non basta, per quanto sentita, una lettera.