Il dato più significativo delle recenti elezioni regionali, segnalato in tutti i commenti, è il grande successo dei quattro governatori uscenti: tre confermati con percentuali stratosferiche, che vanno dal 56% al 76%, e il quarto (Michele Emiliano), dato alla vigilia come perdente, vittorioso con una percentuale che sfiora il 50% dei voti. Ha avuto meno risalto, invece, il fatto che le quattro vittorie hanno caratteri molto diversi fra loro. Luca Zaia e Giovanni Toti sono personaggi che non vanno mai sopra le righe, usano toni soft, mostrano grande rispetto per i partiti che li sostengono e le istituzioni dello Stato – insomma sembrano democristiani aggiornati e ben riusciti.
De Luca-Emiliano: vittoria senza Pd
In Campania e in Puglia invece è tutta un’altra storia. Vincenzo De Luca e Michele Emiliano riempiono la scena, snobbano il sostegno del proprio partito, il Pd, con cui anzi sono in guerra, mettono la massima cura nel cercare di costruire un grande personaggio (De Luca in tv), collezionano nemici (il Nord, il Governo inadeguato) che, accumulandosi, ne rafforzano l’immagine di potenza. Alla fine la vita politica della Regione si impernia su un solo tema: il rapporto diretto, stretto, quasi viscerale tra il leader e il popolo. Gli altri sono i nemici, quelli che vogliono danneggiare la Campania o la Puglia (varianti: Napoli, Bari, il Sud), ma il leader proteggerà, anche con il lanciafiamme, il suo popolo. Nella storia del Pd e dei suoi predecessori – il Pci e la Dc – questo modo di fare politica non aveva cittadinanza: la decisione politica spettava al partito e i leader sapevano di avere un ruolo in quanto ne erano parte. Dopo la bufera del 1992-93, che schianta quasi tutto il mondo politico, mentre il centrodestra, rimasto orfano, si affida a leader carismatici (Berlusconi, Bossi), gli eredi del Pci, unico partito nazionale ancora in piedi, seguono la linea tradizionale e non lasciano crescere figure così forti da impressionare gli elettori.
La mancanza di leader condiziona dal 1994 i risultati elettorali della sinistra che in 25 anni vince una sola elezione (nel 1996, grazie alla rottura fra centrodestra e Lega), ne pareggia due (2006 e 2013) e ne perde quattro (1994, 2001, 2008, 2018). Al governo o in maggioranza, comunque, la sinistra resta a lungo (17 anni su 27 tra il 1994 e il 2020) contando più sull’abilità nella manovra parlamentare (governi tecnici, cattura della scissione ministeriale di Alfano, accordo con Grillo) che sulla propria attrattiva nella conquista dei voti.
La sbandata dei grillini
Oggi Emiliano e De Luca sembrano inaugurare un’altra storia, almeno al Sud. Riportano energia e popolo a una sinistra che da tempo vive sul consenso accumulato da apparati innestati nel profondo della vita sociale (Emilia Romagna, Toscana) e sulla simpatia complice delle élite. Senza di loro i conti del Pd alle Regionali sarebbero in perdita. Nella Seconda Repubblica il Sud è per lungo tempo una pingue riserva del centrodestra: quando Forza Italia comincia a disgregarsi, riaffiorano antiche ispirazioni – ribellismo, affiliazione clientelare – che i grillini sono abili a interpretare e gonfiare (anatemi anti-casta, reddito di cittadinanza). Le politiche del 2018 sono le prime elezioni del dopoguerra vinte da una formazione politica con un’agenda e una classe dirigente centrate a Sud.