di Luisa Bianchi
Nel villaggio di Lalish, la città santa degli Yazidi, si entra a piedi nudi. Scendiamo dall’auto, senza scarpe, dopo aver costeggiato le montagne brulle al confine con l’Iran, dove sono acquartierati i nuclei attivi del PKK che resistono a Erdogan. Dopo aver attraversato la piana di Gaugamela, dove Alessandro Magno sconfisse l’armata di Dario abbattendo l’ultimo ostacolo alla sua incredibile conquista. Dopo aver osservato dall’alto, a pochi chilometri di distanza, Mosul e la frontiera con quello che tra il 2014 e il 2017 è stato il Califfato Islamico. Territori su cui si è abbattuta, da decenni, solo guerra e violenza, segnati da bombe e da mine. E ora togliersi le scarpe all’ingresso del villaggio di Lalish assume un significato simbolico che va oltre la sacralità del luogo: un minuscolo pezzo di terra scampato alle violenze che vuole essere diverso dalla terra coperta di macerie di Mosul, dalle buche lasciate dalle bombe, che chiede il rispetto che si deve a una terra sacra. Chiede che i passi siano lievi sul tempio di questa religione misteriosa e del suo popolo perseguitato.
Lo sterminio degli yazidi
Gli yazidi, minoranza religiosa e etnica, sono stati oggetto di sterminio da secoli: 74 genocidi in 700 anni, l’ultimo del 2014 per mano dell’Isis, che li ha costretti a lasciare Sinjar e l’Iraq occidentale dopo aver ucciso 12.000 persone. Hanno subito persecuzioni, discriminazioni, violenze (soprattutto sulle donne, che l’Isis voleva fare schiave), uccisioni di massa. Perché tutti si sono accaniti contro di loro?
Lo chiedo allo Sheikh Ali Ilyas, il nuovo Baba Sheikh, capo spirituale degli Yazidi. Sotto il copricapo arrotolato come un turbante, gli occhi scuri si stringono. “Dio ha voluto così”, risponde. Non è loquace. Non parlano volentieri della loro religione antichissima e misterica. Lo yazidismo ha assimilato, in un fantasioso sincretismo, tradizioni mesopotamiche, zoroastriane, giudeo-cabalistiche e del cristianesimo nestoriano. Dopo l’avvento dell’islam ha ripreso molti elementi del sufismo, connotandosi sempre più in senso esoterico, ed è stata codificata solo nel XII secolo da Adi Ibn-Muzafir, la cui tomba è proprio qui, nel tempio di Lalish, ed è meta del pellegrinaggio che ogni yazida deve fare una volta nella vita.