Vabbè, Lilli Gruber. A volte ci si chiede quanto fondamento, quanto peso possano avere davvero certi logorroici ad uso politico (pressoché nessuno, zero via zero). Perché è chiaro che le loro uscite sono esclusivamente strumentali, non pensano a quello che dicono, o, come avrebbe detto John McEnroe, “andiamo, non puoi fare sul serio”.
Vabbè, Lilli Gruber. Con le sue uscite strampalate. Con la sua faziosità virtuosa, nel senso che pretende di farne una virtù. Con le sue non interviste, nel senso che se si rivolge a uno che considera un nemico l’atteggiamento è di rara scorrettezza, se ad un amico o sodale diventa imbarazzante consonanza. Che volete, funziona così, in Italia. Se uno pensa al trattamento riservato da un reporter australiano all’esagitata “advocate” delle Nazioni Unite, quella antisraeliana e prohamas, ma appena appena. Roba invisibile da noi, improponibile.
Vabbè, Lilli Gruber. Otto e mezzo, sì, ma nel senso ultrafelliniano: le sue ossessioni sono sul visionario militante, sempre con un occhio alla strategia, adesso ce l’ha con la principale, la premier, perché vuol essere chiamata presidente, chiaro sintomo di patriarcato. E quando una argomenta così, che vuoi stare a discutere? “Tu non potrai negare che in Italia ci sia forte cultura patriarcale e che questa destra destra al potere non la sta proprio contrastando tanto”. Così a Specchia di Libero. Ah Lilli, ma che stai a dì?
Capiamo benissimo, qui il discorso si fa generale, non tanto gruberiano, che il Pd è una faccenda patologica, appena c’è un fatto tragico, cruento, subito ci si fiondano, fanno militanza, cercano di intortare i giovani, che a loro volta non aspettano altro, vero sorelle, vero cugini, vero attivisti climatici, vero tendine, vero filoislamisti? Per forza: non hanno più niente, gli scioperi strategici sono dei fallimenti, gli operai li hanno mandati a spalare il mare, i vecchi non si fidano, se non riescono a bacare i cervelletti imberbi, è la fine. Fa schifo, ma è così.
Solo che le manfrine sul patriarcato lasciano il tempo che trovano, un tempo mefitico, e si risolvono nell’ennesima buffonata da tutti percepita: se ne stanno sentendo tali e tante, intorno alla morte della vicentina Giulia, da indurre a nausea e a rispetto di sé anche i più trinariciuti, fatti salvi alcuni casi di sedicenti scrittrici, disagiate varie, ominicchi che pretendono di scusarsi a nome del genere maschile e di metterci tutti sul banco degli imputati: intendiamoci, se i vari Ermal Meta, Piero Pelù, Marchisio (il calciatore) e la solita pletora di opportunisti mediatici intendono vergognarsi di quelli che sono, padronissimi: si conosceranno bene, avranno le loro ragioni, che personalmente approviamo senza riserve: basta guardarli basta sentirli. Solo che se anche le parole non hanno un peso, un minimo di consistenza la debbono mantenere. Se no chi le erutta è peggio di un cialtrone.
Ora, noi ameremmo molto che Lilli Gruber (vabbè) ci precisasse il significato del patriarcato; sputata così, è una formuletta, uno slogan ginnasiale che l’età nol consente (da un pezzo). Fatevela finita, cari. Il patriarcato, si andassero a studiare qualche testo di Giovanni Sartori, è l’esatto contrario di quello che intendono questi tizi. Non sopravvive più nemmeno nel profondo Sud, dove se mai le ragazzine si offrono come vestali ai maschi (sentire certe insegnanti, disperate: fonti certe e dirette), condizionate se mai dai modelli del consumismo mediatico e dagli sciagurati esempi di influencer e delle tribù trap: “Tro**, put**, da qui non esci, ti taglio la faccia, ti allargo la fi**, in disco in catene, solo con me, non mi fido neanche di tua madre”: e loro, le carine: “Sono d’accordo, la penso allo stesso modo”.
La pensano, loro. Perché l’intellighenzia stupida e pateticamente provocatoria non si sofferma su simili esempi e precedenti, peraltro di matrice immigrata? E come fa la medesima idiocrazia a sostenere insieme il patriarcato del maschio italiano bianco tossico (quello nero, d’importazione, che scanna Saman no, quello va contestualizzato, quello va bene) e Hamas dove notoriamente le donne sono portate in palmo di mano, nel senso di ridotte a brandelli che stanno in un pugno?
No, scusate, non se ne può più: avete rotto, e questa strumentalizzazione, penosa, attaccarsi al male puro di un tarato per cercare di minare un governo considerato nemico, manda esalazioni di fogna, da chiunque provengano.
Non è questione di Lilli Gruber, vabbè, figurati, non alludiamo a lei. È il complesso che in nome di una complessità millantata banalizza e distorce a livelli avvilenti. È una situazione allucinante, miserabile, un giardino lugubre in cui si aggirano sciacalli, jene, avvoltoi sinistri (purtroppo imitati da troppi considerati di destra, mentre sono solo vili bottegai della politica). Ovviamente Giorgia Meloni ha risposto, e ci ha perso anche troppo tempo: Gruber, vabbè, manco a dirlo se n’è compiaciuta come chi si sente considerata, raccolta, e ne ha profittato per spolverare un po’ il suo programma.
Ora, ha ragione Alessandro Sallusti: se questa gente ha problemi con gli uomini, o con chiunque altro, il problema è suo. Non nostro. Se poi si hanno problemi anche con l’estetica, vedi alla voce “chirurgia”, è sintomatico ma non può diventare un’accusa a me, maschio, bianco, cristiano, incensurato e mite (come disse Keith Richards di Michael Jackson: “Uno che si taglia la faccia in quella maniera non sta bene e non può dare lezioni a nessuno”; a buon intenditor, pochi riferimenti).
Non rompete, attiviste o suffragette o suffragione. Non avessimo la magistratura che ci ritroviamo, sarebbe da intentare una denuncia-querela ogni volta che qualcuno si permette di appaiarci, noi incurabilmente uomini, a un balordo criminale assassino: come vi permettete? Ho mai scritto, io, che le donne sono tutte assassine nel caso della Franzoni o di Avetrana, una ragazzina trucidata da una zia e una cugina? Se poi il livello dev’essere quello della sorella della vittima, già sparata verso lidi bruxellesi o come minimo mediatici, avvolta nelle spirali di un fervore ideologico, chissà quanto innocente, “bruciate tutto!, fuoco a tutto!, la strage è di Stato!, non esistono maschi innocenti”, beh, ci si lasci pur dire che abbiamo esaurito le riserve di compassione anche verso soggetti così. Che hanno anche loro, a giudicare dai social, serissimi problemi da risolvere e magari, a questo punto, anche qualcosa in più.
Max Del Papa, 21 novembre 2023