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Feltri smaschera la cultura dell’illibertà

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L’Ordine – così con la maiuscola – dei giornalisti, gli ordini professionali, il valore legale dei titoli di studio: ma in che razza di Paese viviamo? Se non sei iscritto all’Ordine dei giornalisti puoi scrivere sì, ma non puoi esercitare la professione o hai comunque problemi a farlo e senz’altro non puoi assumere la direzione responsabile di un giornale. Gli ordini professionali, a loro volta, discendono direttamente dalle corporazioni e dividono la società italiana in scatole, categorie, classi che rivendicano le loro prerogative in termini di iscrizioni, tutele, aggiornamento, controllo, esercizio della professione. Il valore legale dei “pezzi di carta”, poi, è un bollo di Stato con cui il merito viene svalutato e l’impreparazione è mascherata con il timbro legale che trasforma la cultura, il sapere, l’educazione in una merce di scambio. Ma che razza di Paese siamo? Diciamocelo con franchezza: un paese con una profonda cultura illiberale e una concezione paternalistica e autoritaria dello Stato.

Tuttavia, c’è qualcosa di peggio. E il qualcosa di peggio è la pretesa di far passare questi cascami autoritari come una sorta di garanzia e di indipendenza ora del giornalismo, ora delle professioni, ora della scuola, mentre ne sanciscono la dipendenza e la sottomissione. Il caso Feltri – di questi tempi c’è sempre un caso Feltri da discutere e sembra quasi che il direttore voglia far scoppiare gli scandali per mostrare le assurdità feudali della nostro vita civile – il caso Feltri, dicevo, è emblematico: sceglie di lasciare l’Ordine – così con la maiuscola – e il presidente dell’Ordine, Carlo Verna, dichiara che avrebbe voluto ricondurlo sulla retta via, senza rendersi conto, probabilmente, di ciò che diceva o, forse, rendendosene conto e rivendicando il ruolo.

Beh, delle due possibilità non saprei davvero quale sia la peggiore. Ma perché accadono corto-circuiti come questo? Perché la cultura politica italiana non ha mai realmente conosciuto una vera e propria cultura anti-totalitaria ma solo il dogma dell’antifascismo militante in cui il partito comunista e il partito degli intellettuali marxisti da un lato ha scomunicato il fascismo e ogni avversario politico tacitandolo con l’accusa di essere fascista e dall’altro si è appropriato degli stessi istituti dello Stato fascista. Tra questi vi sono proprio l’Ordine dei giornalisti e il valore legale dei titoli di studio ma con una differenza fondamentale: proprio durante l’epoca repubblicana questi istituti vengono portati ad una perfezione illiberale.

Sia il giornalismo sia la scuola per vivere non hanno bisogno di questi istituti. Al giornalismo bastano l’articolo 21 della Costituzione e il codice penale, alla scuola invece non serve per nulla lo Stato pedagogo ma un sistema giuridico-istituzionale fondato sulla libertà. Per quanto riguarda, poi, gli ordini delle categorie professionali bastano libere associazioni. Come è possibile che l’Abc della libertà della cultura è in Italia non solo ignorato ma addirittura capovolto? Come è possibile che gli stessi uomini di cultura – di pensiero si sarebbe detto un tempo – siano sempre alla ricerca di autorizzazioni da parte dello Stato o di enti para-statali con cui timbrare le coscienze? È possibile perché non esiste una cultura della libertà. Purtroppo, è fin troppo possibile perché il marxismo italiano ha mirato esattamente a raggiungere questo obiettivo egemonico riconducendo la libertà di pensiero, di espressione, della cultura, della educazione alla sottomissione ad un Partito che mirava a farsi esso stesso società e Stato alimentando la subcultura del potere illimitato perché buono.

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