Non c’è niente di più piacevole che sedersi sul divano coi popcorn e godersi le femministe che se le danno di santa ragione. Niente di fisico, s’intenda. Solo che ieri sera al Concertone del Primo Maggio la sempreverde Ambra Angiolini ha silurato (non si sa se volutamente o meno) tutte le amich* in stile Murgia che da anni si battono per la declinazione femminile delle professioni.
Non che Ambra abbia espresso chissà quale rivoluzionario concetto. In sintesi: anziché scannarci sulle desinenze, dateci la parità dei diritti e dei salari. Ovviamente l’ha detto con più enfasi e vagonate di retorica che non sto manco a riportarvi. Però è vero: mentre Laura Boldrini lavorava alacremente per la declinazione al femminile di “avvocato” e la Murgia sbraitava per l’introduzione d’imperio dell’orripilante schwa, il dibattito pubblico “perdeva di vista i fatti”. Ovvero che per garantire la parità dei diritti alle donne occorrono più asili, maggiori garanzie, salari adeguati. Non quote rosa o dibattiti filologici: queste sono solo “armi di distrazione di massa”.
Non so se la Angiolini ne fosse consapevole o meno, forse no, ma il suo intervento è suonato come un maxi-spot a Giorgia Meloni e uno schiaffone in faccia alle femministe da tastiera. In fondo Meloni è il primo premier donna ma fa declinare la sua professione al maschile. Quel “che ce ne facciamo delle parole?”, ben prima che di Ambra, è stato infatti il motto del pragmatismo di genere della leader di FdI: conquistarsi passo dopo passo ciò che si desidera, senza aspettare che sia un uomo, una quota rosa o un segretario di partito a concederlo. E soprattutto senza perdersi dietro a inutili dibattiti sugli asterischi.
Per approfondire
- Che imbarazzo l’ultrafisico Rovelli: sulla guerra tesi da liceale
- Che orchestra di retorica: vorrei abolire il Concertone
Ed eccoci ai popcorn. Su Repubblica, Michela Marzano ha colto la palla al balzo e alla “Cara Ambra” ha cercato di spiegare perché “le vocali al femminile sono una conquista delle donne” (ciao core). Il tono è pacato, ma sotto sotto s’intravede il tipico astio in stile passivo-aggressivo. “Hai ragione a puntare il dito contro la disparità di genere”, però… Però non hai capito un fico secco, cara Angiolini. Il Murgismo richiede anche forma, non solo sostanza. Perché “quando le cose vengono nominate male, non si fa altro che aggiungere sofferenza” (e già uno s’immagina frotte di donne in lacrime per essere state chiamate “presidente” e non “presidenta”). Quindi va bene battersi per stipendi più alti ma anche serve anche lavorare “per uscire dal cono d’ombra che, in assenza delle parole giuste, continua a renderci invisibili”. Amen.
La verità è che il femminismo si sta spaccando sempre più dall’interno, un po’ come la sinistra. Da una parte quella frangia d’élite, distante dai problemi reali, molto ideologizzata e attenta agli inutili dettagli. Dall’altra chi cerca di tenere la barra dritta sulle questioni importanti. Le prime si battono per le “vocali”, la schwa e l’asterisco; ma anche per il gender, l’utero in affitto e l’annullamento delle differenze tra uomo e donna. Le seconde, vedi J.K. Rowling, s’oppongono alla fluidificazione di ogni cosa, dicono “no” ai transessuali nelle gare femminili, considerano la “gestazione per altri” un barbaro sfruttamento e non stanno lì a sindacare se sia più corretto scrivere “idraulico” o “idraulica”. Perché alla fine l’importante è che il rubinetto smetta di gocciolare. E che sia dignitosa la parcella del mio fidato operaio di nome Marta.
Giuseppe De Lorenzo, 2 maggio 2023