Esteri

Firme e cambi di linea: chi manipola Biden sfruttando i suoi tilt mentali

Dai familiari allo staff: il cerchio magico del presidente Usa nei momenti down

Biden, burattinaio © Africa images tramite Canva.com

Biden alla Casa Bianca è diventato come Wojtyla quando, ostaggio del suo cerchio magico polacco, in articulo mortis gli fecero firmare trenta nomine di vescovi tra i quali quello africano di Bangui, con più mogli. Nomine in gran parte annullate poi da Benedetto XVI. A Washington, famiglia e staff del presidente hanno lavorato sottobanco, fino all’ultimo, per una soluzione analoga, in un clima da “tutti contro tutti”, ognuno con lo stesso obiettivo: non perdere potere. Ma poi arriva il Covid, quasi un segnale divino, la scusa migliore per non perdere la faccia.

Certo, i collaboratori e aiutanti del presidente Usa difficilmente troveranno un altro lavoro così ben retribuito e il secondogenito di “Sleepy Joe”, Hunter, si vede saltare la copertura presidenziale dei suoi troppi guai giudiziari – dagli affari in Ucraina e in Cina, al revolver comprato senza dichiarare la sua tossicodipendenza (negli Stati Uniti è reato). Anche la first lady Jill deve scordarsi le copertine su Vogue, ma almeno Biden ha smesso di fare brutte figure e, con lui, l’America. “Siamo alla fine”, è la frase trapelata dall’entourage. Nello Studio Ovale il panico e la confusione di qualche giorno fa hanno lasciato il posto ad una cupa rassegnazione.

Sull’altro fronte, i Repubblicani stanno invece vivendo il loro magic moment: unità inaspettata e rinsaldata dall’attentato a Donald Trump, convinzione nel programma rilanciato dalla scelta del vicepresidente J. D. Vance e, infine, il lavoro del tycoon e della nuora Lara – evitando saggiamente gli errori del 2020 – ha persuaso i “donors”, grandi e piccoli, a far volare le donazioni con un fundraising record. Il confronto con i progressisti, che non riescono a mettersi d’accordo neanche sulla data della convention, è spietato. Hanno lasciato che Biden si intestardisse nonostante la sua salute cagionevole o, forse, proprio per quella, magari con l’intento di approfittare dei suoi momenti “down”. Alcune fonti raccontano che non appena si percepiva la minima debolezza del presidente, partiva la corsa per fargli firmare “la qualunque” o altri documenti che, nei momenti di lucidità, avrebbe rimandato al mittente.

I più vicini, che ben conoscono le sue abitudini e le reazioni a particolari frasi o eventi, avevano addirittura classificato delle fasce orarie “delicate” in cui – ufficialmente per motivi di sicurezza, ma in realtà per non lasciare spazio ad altri – intervenire in modo produttivo pro domo propria e far passare una linea rispetto ad un’altra, su questo o quel dossier. Alcuni report delle fazioni del partito dell’Asinello, simbolo dei Democratici, contrassegnavano perfino i luoghi dove si riusciva ad esercitare la migliore attività di persuasione sulla Casa Bianca. In cima alla lista, Camp David, con pochi legittimati all’accesso; poi l’Air Force One, sedendo al tavolo di lavoro del Presidente: il top del top per riuscire a chiudere questioni scottanti di fronte ad un presidente tendenzialmente sempre “sleepy”.

A prevalere era sempre la linea del “last in, first out”. Il segretario di Stato Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan non se ne sono mai fatti una ragione: quante volte Biden li ha sconfessati dopo mesi di lavoro certosino! I maligni si chiedevano come non uscissero fuori di testa. Stesso dicasi della segretaria al Tesoro Yellen, già presidente della Federal Reserve, che per mantenere i nervi saldi si faceva vedere in giro meno possibile. Anche Trump non è un ragazzino, ma ha guidato la campagna senza risparmio di energie e senza “ombre” ingombranti come Obama o il George Clooney di turno. Figure che non impressionano “the Donald”, pronto a mandare a casa tutti gli “uomini grigi” per costruire un’America più produttiva, che guardi avanti e guidi il mondo. Musk di Tesla e Thiel, il “cattivo” della Silicon Valley, sono già on board, mentre Jamie Dimon, ora Ceo di JP Morgan, sarà molto probabilmente il prossimo segretario al Tesoro.

Personaggi dirompenti e destabilizzanti che, con Trump, vedono l’occasione per spazzare via la vecchia guardia, che ora trema mentre Wall Street vola. Qualora Trump vincesse le elezioni, nelle cancellerie europee ma soprattutto tra i nemici storici degli Stati Uniti, dalla Russia di Putin alla Cina di Xi Jinping, fino ad Hamas, vedremo una rivoluzione nei rapporti diplomatici in cui gli Usa faranno contare tutto il loro potere. Quello che, di fatto, con Biden non è avvenuto, a partire dalla questione Israele. E non bisogna dimenticare gli interessi dell’industria americana delle armi: il mercato ucraino e quello israeliano sono molto attraenti, un business della morte che Biden non ha fermato.

A onor del vero, tutti i presidenti Usa non si sono mai tirati indietro, i democratici in particolare. La Prima e la Seconda Guerra Mondiale furono risolte con interventi degli Stati Uniti voluti da presidenti democratici. La scelta di usare la bomba atomica per sconfiggere definitivamente il Giappone nel 1945 fu di Harry Truman, che lanciò la guerra di Corea, fra il 1950 e il 1953. John F. Kennedy, il più amato tra i presidenti democratici, avviò la sanguinosa guerra del Vietnam dal 1961, il suo successore Lyndon Johnson la proseguì, e l’odiato repubblicano Richard Nixon alla fine, grazie ai consigli di Henry Kissinger, la concluse. Un altro dem molto amato, Barack Obama, premio Nobel per la Pace, ci ha regalato, grazie alla folle politica estera di Hillary Clinton, la tragedia della Siria e l’uccisione da parte dei servizi francesi di Gheddafi, che ha destabilizzato il Medio Oriente e dato la stura all’immigrazione selvaggia dall’Africa. E Biden si inserisce alla perfezione in questa narrazione.

Il 5 novembre può succedere qualsiasi cosa, forse le certezze di Donald Trump andranno in frantumi, forse i progressisti tireranno un sospiro di sollievo com’è successo in Francia e magari il Commander in Chief avrà la gonna di Kamala Harris che si muove già da prossima candidata. Certo è che all’Europa interessa che l’America faccia l’America e che arrivi qualcuno in grado davvero di make America great again. Meloni pronta ad adeguarsi.

Luigi Bisignani per Il Tempo 21 luglio 2024

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